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Meloni, Giovanni Minoli: "Una grande mente politica. Ma ho un timore"

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Francesco Specchia
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Piccoli miracoli da palinsesto. Possono delle interviste maneggiate come cold case -anime perdute riascoltate al rallentatore- cambiare l’angolo di visuale del terrorismo? Può un deja vu cronistico, ieri rigettato dai padri, toccare oggi il picco d’ascolto dei figli? Questo è accaduto a “Mixer-Vent’anni” giovedì sera su Raitre, il programma di faccia a faccia rimontati tra l’eterno Giovanni Minoli e i terroristi neri e rossi.

 

 

 

Caro Minoli, in due puntate dedicate negli anni di piombo tra il 1966 e il 1983 e alle gesta terrificanti di Brigate Rosse e Nar, avete toccato anche l’8% di share, e l’obiettivo era il 3%. Quando le interviste a Francesca Mambro, Giusva Fioravanti e Alberto Franceschini andarono in onda per la prima volta nel ’92 fu un flop. Perché oggi, rimontate, interessano ancora i giovani?
«Perché oggi la fame di conoscenza è tanta, al punto che fa il botto d’ascolti: e, con l’ottica dell’oggi, si scopre che erano, questi del terrorismo di destra e sinistra, come i Ragazzi della via Pal, in guerra fra di loro: ideali pochissimi, visione politica zero, psicologismo tantissimo. Alla fine, ne esce che vivevano da sfigati col complesso di non aver fatto la Resistenza come i loro padri, e non avendo una visione, pensarono ad una pseudo-guerra civile. Franceschini lo conferma: “Di politica noi non capivamo un cazzo, ma la politica ci ha usato finché ha voluto. Eravamo disorganizzati avrebbero potuto prenderci in qualsiasi momento ma non l’hanno fatto. Appena l’hanno deciso, ci hanno fermati”».

Trattasi d’una sorta di revisionismo storico al ralenty: questo toglie qualsiasi alone romantico ad assassini piccini piccini che potevano essere fermati...
«Esatto. Ti dirò di più: nel prossimo Mixer andrà in onda l’intervista al leader studentesco del “maggio francese” (ricorda il caos di questo maggio francese) Daniel Cohn-Bendit: e lui mi conferma che la sola rivoluzione del ‘68 fu nel costume, nelle abitudini sessuali. Perché, poi, tutti gli ideali –quei pochi- scivolarono inesorabilmente nel terrorismo. In fondo erano quattro gatti...».

Beh, quattro gatti che ci spinsero all’apocalisse.
«Fecero disastri inenarrabili. M’impressiona la Mambro quando dice: “Poi abbiamo deciso di non spararci più tra noi”. Altro che rivoluzione e cambiamento e palingenesi: dietro non c’era assolutamente niente, se non “demoni personali” come hanno ammesso loro stessi. Poi, intervistando il padre di Fioravanti, ti rendi conto che dietro questo vuoto c’era il suo vero fascismo, visibile nella durezza in cui descrive i propri figli: uno bravo e Giusva, quello scemo. Pensa a come è cresciuto...».

Che differenza c’è tra il terrorismo nero e rosso?
«Dalle mie interviste nessuna. Uccidevano senza un senso, sapendo di non volere e non potere cambiare il mondo. Giocavano a chi ne ammazzava di più».

La Rai sta vivendo uno dei suoi momenti più bui. Un amministratore delegato che ha resistito alla sua stessa inerzia; la politica che gli trova un altro impiego; un nuovo cda in insediamento e la “rivoluzione culturale” della destra-centro alle porte. Forse. Ti sei portato i pop corn?
«Fossi stato al governo io avrei chiamato Fuortes e gli avrei chiesto di essere affiancato da un direttore generale con pieni poteri. Fino alla scadenza naturale (di Fuortes) l’anno prossimo, e lì gli avrei detto: ti do una mano a trovarti un altro posto. L’alternativa sarebbero i giardinetti. Secondo me non scavalcavi nessuno, tutto rientrava nelle regole, era lineare. Oggi la vedo farraginosa: norme ad hoc, ricorsi, incazzature varie...».

Per poco, una volta, hai sfiorato la presidenza di viale Mazzini. Ricordo che c’era, con Cappon direttore generale, un tuo piano di ristrutturazione dell’azienda. Che fine ha fatto?
«Ancora lì. In Rai ci sono 13mila dipendenti, 1700 giornalisti, con l’80% delle produzioni in outsourcing. Ed è diventata un mostro burocratico. Fosse per me ne taglierei 3000/4000 per assumerne 300 giovani. E metterei i “supporti burocratici” -come si chiamavano una volta- al servizio del prodotto e degli uomini di prodotto che dovrebbero comandare. E oggi sono pochi. E molti di quei pochi sono cresciuti con me. Non per niente si dice la “scuola Minoli”».

La falsa modestia è la più decente di tutte le menzogne, diceva Chamfort...
«Ma è così, dai. Qui c’è ancora chi finge d’indignarsi per la lottizzazione. Siamo seri. La Rai, è sempre stata lottizzata dai partiti, lo è per legge. Il problema sta nel fatto che le lottizzazioni bisogna saperle fare. La Rai della prima Repubblica lottizzava benissimo: i partiti facevano a gara fra loro per avere i professionisti migliori. Ti dirò che più che lottizzazione c’era un grande criterio di rappresentatività...».

 

 

 

Non hai tutti i torti. Comunque, il tuo piano assomiglia molto all’idea di televisione di Giampaolo Rossi, l’uomo cardine della Meloni sulla ristrutturazione della Rai.
«Ma io non credo che nel tempo la riforma per generi -approfondimento, informazione, documentari, fictionpossa funzionare. Il linguaggio tv è cambiato. I generi si contaminano a vicenda sempre di più. Per dire: le docu-fiction (sempre più numerose) chi le fa? La direzione fiction o quella dei documentari? È solo un esempio tra i tanti che potrei farti. E te lo dico avendo fatto tutti i generi con Mixer, Blitz, Un posto al sole, La storia siamo noi».

Oggi con Mixer e Radio1 sei tornato, dopo una vita, a viale Mazzini come il figliol prodigo. Ma te ne andasti in modo brusco, e con in sospeso la faccenda dei diritti de La storia siamo noi, uno dei più grandi archivi della Rai. Li hai ancora tu? Com’è finita?

«Quella è la prima cosa che mi preme risolvere: i diritti de “La storia siamo noi” sono miei. Potevo venderli agli americani cento volte, ma sono oggettivamente un patrimonio della tv di Stato. L’ufficio legale della Rai mi ha detto: trattiamoli ‘sti diritti, mettiamoci a un tavolo e usciamone entrambi soddisfatti. Mai più sentiti. Io ci farei una striscia quotidiana, è un valore aggiunto».

Da esperto di comunicazione: com’era il video di Giorgia Meloni girato quasi in piano sequenza hitchcockiano a Palazzo Chigi, che si è contrapposto al concertone del Primo Maggio?

«La Meloni è estremamente intelligente, grande mente politica. Ma la vedo molto sola. La consigliano forse anche male. Io, per esempio, quello spot non l’avrei fatto. Quel tipo di comunicazione l’ha già consumata tutta Berlusconi, non c’è nulla di nuovo, e lei non ha bisogno di fare l’attrice di sé stessa. Lei è spontanea, è ruspante, dà la sensazione di avere radici profonde che magari ti possono non piacere ma ce l’ha. E’ perfetta l’ “agenda” di Giorgia per comunicare agli elettori; il resto, gli orpelli, meglio lasciarli perdere».

Il governo riuscirà a tenere la barra dritta?

«Guarda, la Meloni mi ricorda Papa Wojtyla quando da solo sconfisse l’impero sovietico senza colpo ferire e portando milioni di persone in piazza. Woytila ha avuto una chiesa di eroi e martiri ma quando ha vinto - come mi ha detto Gorbaciov - si è trovato una chiesa sì di eroi e martiri, ma con una cultura pre-industriale che non serviva per fare la Polonia moderna. Risultato la Polonia è diventata il Paese più consumista d’Europa. Cioè ha vinto contro il comunismo ma ha perso contro il consumismo perché non aveva una classe dirigente preparata e adeguata».

Non l’ho capita benissimo. Forse l’hai presa un po’ larga...

«Voglio dire che la Meloni è sè stessa, quando dice “io non sono ricattabile”. La sua natura - dice - “è più forte di me”. Ma deve allargare il suo organico oltre l’inner circle di fedelissimi. Per governare bene devi anche avere progetti di lungo periodo e lasciare che ti superino, e devi circondarti di persone più brave dite».

E ci sono persone più brave della Meloni?

«No. Purtroppo, per ora, la Meloni resta di gran lunga la migliore dei suoi...».

 

 

 

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