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Barbara Gallavotti, "mettere l'uvetta": i segreti di Piero Angela

Lucia Esposito
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Barbara Gallavotti, lei svela i misteri dell’Universo. Ci riveli qual è il suo segreto: come si fa a parlare di scienza senza annoiare e farsi capire anche dai bambini?
«Non devi abbassare il livello di quello che racconti ma semplificare il linguaggio. Sembra una banalità, ma gli scienziati spesso fanno il contrario: omettono delle informazioni ma continuano ad utilizzare il loro linguaggio».

Ha lavorato per 23 anni con Piero Angela, che cosa ha imparato?
«Tantissimo. Ma soprattutto il rispetto per il pubblico, la consapevolezza che è fatto di persone non esperte ma curiose a cui bisogna dare informazioni di qualità. E poi Piero mi ha insegnato a mettere l’uvetta».

L’uvetta? In che senso?
«Diceva sempre «metti le uvette, metti le uvette» come nel panettone».

Cosa c’entra il panettone con la scienza?
«Il panettone ha un impasto che da solo può risultare stopposo e per renderlo gustoso ci metti le uvette. Quindi, quando racconti una cosa complicata ma importante devi mescolarla con spunti divertenti che aiutano a tenere alta l’attenzione».

Barbara Gallavotti recentemente ha inventato il progetto per il Museo della Scienza e della Tecnologia di Milano “Fatti per capire”. Ci spiega come nasce e che cos’è?
«Siamo nati per capire, ma per capire dobbiamo sapere. La filosofia che c’è dietro è la necessità di costruire una cittadinanza scientifica, che è lo scopo della divulgazione scientifica».

 



 

Chi ha cittadinanza scientifica?
«Coloro che sono in grado di pronunciarsi in modo consapevole su temi che riguardano scienza e tecnologia, cosa che ci viene chiesto quotidianamente di fare. Quando, per esempio, decidiamo se vaccinarci o no, facciamo delle scelte che riguardano la nostra salute masi riflettono sulla collettività e sul nostro futuro».

Per questo il sottotitolo della sua trasmissione «Quinta dimensione» (è appena terminata la prima stagione, ndr) recita “Il futuro è già qui”?
«Esatto, per questo penso che la scienza e la tecnologia non possano non essere parte del nostro dibattito quotidiano, così come la politica e l’economia».

Concretamente che cosa è “Fatti per capire”?
«Si ispira al Science Media Center creato circa 20 anni, fa quando la Camera dei Lords si accorse che i britannici non erano in grado di esprimersi su temi scientifici controversi. Avendo molte persone di staffe un budget annuo molto cospicuo esce molto più spesso di noi ma si rivolge solo ai giornalisti».

Il suo progetto invece?
«Prevede aggiornamenti sulla pagina web e sui social del Museo rispetto a questioni controverse. Il nostro servizio non è rivolto solo alla stampa, tuttavia, se un giornalista vuole parlare con uno degli esperti, noi siamo a disposizione e forniamo il materiale di cui ha bisogno».

Come sceglie gli argomenti?
«Parliamo di ciò che è tema di dibattito. Per ora, fra l’altro, auto elettriche e intelligenza artificiale. Un articolo dà il contesto generale, poi c’è il parere di alcuni ricercatori il cui scopo non è convincere a favore o contro qualcosa, ma fornire strumenti per capire».

 



 

Lei scrive libri (ha appena pubblica per DeA “L’infinito dentro di noi”), divulga la scienza in tv, e con “Fatti per capire” approda anche sul web. Attraverso i social si può fare divulgazione scientifica?
«Ogni mezzo offre opportunità diverse. Con i libri puoi approfondire, con la tv, quindi con l’uso delle immagini, puoi emozionare di più. Sicuramente con i social non puoi andare in profondità ma puoi far nascere degli interessi. E se fai nascere un interesse hai già vinto. Inoltre, permettono di farti interagire direttamente con moltissimi scienziati».

Questo può essere anche rischioso...
«Sì, tuttavia seguendo il dibattito tra gli esperti si può capire da che parte sta la comunità scientifica ma anche su cosa non c’è ancora accordo. Invece un libro o una intervista spesso danno solo un punto di vista, quello dell’autore o della persona intervistata».

Qual è l’errore che commettono i profani?
«La comunità scientifica è molto ampia, e allora sui temi controversi alcuni tendono a dare ascolto ai pochissimi che esprimono una opinione che piace, e non alla comunità scientifica».

Come durante il Covid?
«Esatto».

Come dobbiamo regolarci?
«Bisogna ascoltare la comunità scientifica. Se quello scienziato, perfino un premio Nobel, non è in grado di attirare l’attenzione degli altri esperti, quello che dice può essere una sua idea, ma non ha validità scientifica».

Che rapporto hanno gli italiani con la scienza?
«Dovremmo smettere di flagellarci dicendo che non capiamo niente. Il punto è che la scienza avanza molto velocemente e noi, come tanti altri Paesi, non abbiamo gli strumenti per capire con abbastanza consapevolezza tutto quello che avviene».

La scuola è pronta alla sfida?
«La cultura è un ecosistema. Ci sono i grandi alberi che sono la scuola, gli alberi da frutto rappresentano la ricerca e poi ci sono tante altre nicchie, quella dei giornali, della televisione, dei libri, della radio, dei musei. La scuola non è particolarmente in forma, altre nicchie sono proprio assenti...»

I giornali come trattano la scienza?
«Nessuno farebbe raccontare il calcio da un giornalista che non conosce il gioco, o se lo farebbe spiegare solo da un giocatore: ci vuole l’occhio di chi ha seguito la partita dalla tribuna. Per la scienza c’è questa idea romantica che gli scienziati bastino a raccontarla oppure che, accanto all’esperto, puoi metterci un giornalista senza competenze scientifiche».

Qual è stata la ragione del suo successo?
«Non faccio ricerca, come giornalista sono un osservatore terzo e facilmente metto un confine chiaro tra quanto era stato accertato e le ipotesi. Durante il Covid l’impressione era che ci fosse un disaccordo tra gli scienziati ma in realtà non c’era».

Però litigavano tutto il tempo tv...
«Si comportavano come a un convengo scientifico, dove tutti sanno considerare le ipotesi come tali».

Nel maggio 2019, pochi mesi prima della pandemia lei pubblicò “Le grandi epidemie”. Coincidenza, colpo di fortuna o lei ha anche il dono della veggenza?
«Avevo realizzato un documentario su un progetto del governo svizzero. Visitando molti laboratori capii che mentre nella percezione comune le malattie infettive erano state archiviate, in realtà tra i ricercatori c’era la consapevolezza che sarebbe potuto emergere qualcosa di molto pericoloso».

C’è sfiducia nella scienza? Penso ai no vax...
«Nell’emergenza la stragrande maggioranza degli italiani ha fatto la scelta giusta. Era evidente che i vantaggi superavano gli svantaggi».

Si dibatte molto di surriscaldamento globale.
«Le stagioni dovrebbero avere dei cicli: le precipitazioni invernali si trasformano in manto nevoso. In primavera la neve fonde e va a ingrossare i fiumi che servono per l’irrigazione. Invece inverni secchi fanno sì che il manto nevoso sia scarso. E poi lo squilibrio dovuto ai cambiamenti climatici non porta solo meno precipitazioni ma anche piogge straordinarie, ondate di gelo o di calore anomale».

Chi contesta il surriscaldamento globale sostiene che anche cent’anni fa c’erano le alluvioni...
«Certo, anche un secolo fa c’erano alluvioni e siccità, ma il punto è la frequenza sempre maggiore con cui si verificano eventi climatici estremi. È questa altissima irregolarità a essere conseguenza del riscaldamento globale».

Da grande che cosa voleva fare: la scienziata o la giornalista?
«Volevo scrivere, amo le lettere e ho frequentato il liceo classico. Ma alla fine dei cinque anni avevo conoscenze scientifiche limitate e mi affascinava tanto il mondo della natura. Penso che mettere confini tra i saperi sia un errore enorme. Oggi non si può avere quell’atteggiamento po’ snob di una volta e dire: “Della scienza chi se ne importa”. Puoi farlo, ma resti fuori dal mondo».

L'intervista si conclude. Passano pochi minuti. Questa volta è lei a chiamare. «Volevo aggiungere una cosa importante».

Dica.
«La scienza non è né di destra né di sinistra, pensarla in termini politici è un disastro. Certo, dalla ricerca derivano delle tecnologie, pensiamo agli Ogm, al nucleare, alle energie alternative eccetera. È il decidere se e come utilizzarle che è una scelta. Pensi alla scelta di chiudere quando arrivò la pandemia. L’epidemia era un dato scientifico. La decisione di chiudere fu del governo. Discutere le implicazioni economiche o sociali aveva un senso, negare l’esistenza della pandemia no». 

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