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Kevin Spacey, Massimo Gramellini ora si lava la coscienza

Gianluigi Paragone
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Sul Corriere di ieri, Massimo Gramellini nella sua rubrica ha sentito il bisogno di auto-accusarsi di viltà per non aver speso parole in difesa di Kevin Spacey, il popolare attore americano accusato di aver molestato quattro uomini. Diciamo che la questione non ha gran senso: non è questione di viltà rispetto alle accuse o all’accusato e non è nemmeno una questione di garantismo; il tema riguarda il giornalismo e più in generale la comunicazione quando deve trattare questioni dove si sta più comodi a non porsi domande. Il #MeToo è solo uno degli esempi di campagne che, una volta partite, richiedono solo di essere accompagnate nel coro; guai a provare un controcanto perché chilo fa viene indicato, etichettato, squalificato e emarginato. «È tutto così evidente!». Poi, quando la verità (processuale o sostanziale) cambia verso allora ci si lava la coscienza con pentimenti. Fino alla campagna successiva. Diciamo che il clima di Mani Pulite non ha insegnato nulla. Sia chiaro, non sto colpevolizzando nessuno (tanto meno Gramellini) perché ognuno, io per primo, siamo stati nella condizione dell’autore del Caffè di via Solferino (sono convinto che il Caffè dei fratelli Verri e di Beccaria avrebbe avuto più coraggio nello smarcarsi dai coretti).

 

 

Forse un giorno scopriremo che il business sui vaccini è stato più salvifico per le multinazionali che per il “gregge” da immunizzare o che le previsioni apocalittiche sul cambiamento climatico di questi giorni devono segnare il passo a favore di una lettura scientifica più prudente. Non lo so, sia chiaro: pongo solo dei dubbi ed è già qualcosa in questi tempi dove - appunto - provare a dare una lettura diversa significa diventare negazionisti; esattamente come nelle settimane in cui furoreggiava la campagna contro Kevin Spacey sollevare dei dubbi a favore delle tesi difensive significava stare dalla parte del potente e non della vittima. Siamo sempre lì, sui buoni e i cattivi nel raccontone mainstream. Se io ora scrivo che don Ciotti e la sua associazione Libera stanno facendo del male a persone incolpevolmente accusate, divento nemico «di chi mette la propria vita a rischio nella lotta alla mafia». Più volte ho raccontato la storia di Marco Sorbara, ex assessore comunale ad Aosta ed ex consigliere regionale, accusato di appartenere alla ‘Ndrangheta.

 

 

Quarantacinque giorni di isolamento in una cella 4 passi per due; 214 in carcere e 909 in custodia cautelare. Colpevole in primo grado con una sentenza al limite del copia e incolla rispetto all’accusa del pm. Poi assolto pienamente in appello. E poi ancora in cassazione. E allora uno si domanda: ma come si fa a rovinare la vita a un innocente mettendo in fila degli errori così grossolani, evidenti, intollerabili in uno stato di diritto? E poi far finta di nulla? Si fa, ecco perché non cambia mai nulla: cantare nel coro non comporta rischi e ci si fa begli amici, nei salotti che contano. L’associazione Libera di don Ciotti si era costituita come parte civile, sempre accanto all’accusa. Mi domando: di fronte a una vita rovinata ingiustamente, a spese ingenti per dimostrare la propria innocenza, di fronte a un mostro sbattuto in prima pagina perché nessuno, da don Ciotti a Libera, si è degnato di chiedere pubblicamente scusa a persone come Marco? «Don Ciotti, si faccia vivo e ridia una chance agli innocenti infangati dallo Stato. Ci contiamo», scrivevo tempo fa. Ovviamente nessuna risposta, forse erano troppo presi nella rendicontazione delle battaglie antimafia.

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