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Giulio Tremonti ribalto lo scenario: "Perché la guerra può aiutarci"

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Fausto Carioti
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«Le racconto una cosa. Qualche anno fa fui invitato a tenere una lezione dalla Fondazione Ratzinger, in Polonia. Si svolgeva nell’università di una grande città, Bygdoszcz. Finita la lezione, camminavo per strada con un monsignore e le donne si inginocchiavano al suo passaggio. Ripeto: eravamo in una grande città, non in un villaggio. Ecco, l’Europa deve imparare a rispettare questo spirito». Giulio Tremonti, oggi deputato di Fdi e presidente della commissione Esteri, è convinto che la Ue debba interpretare la discontinuità creata dalla guerra in Ucraina e dalle elezioni del prossimo anno per «rigenerarsi» e conciliare le sue due ani me.

Cosa ci dicono quelle donne polacche, professore?
«Ci dicono una cosa importante e ci invitano ad una riflessione sulla storia dell’Europa. C’è stata una prima fase “eroica”, che arriva al Trattato di Roma del 1957, nella quale ci furono gli accordi commerciali interni e l’Euratom. L’Italia aveva aderito al trattato di Parigi, che istituiva la Comunità europea del carbone e dell’acciaio, senza avere il carbone né l’acciaio: però aveva lo spiritus. Seguì la lunghissima fase di rapporti economici, e non solo economici, del mitico Mec. Da lì si arrivò al trattato di Maastricht del 1992, che segnò l’ingresso dell’Europa nella globalizzazione e l’inizio della fase che arriva fino ad oggi».

Maastricht fu il punto di svolta, insomma.
«L’inizio della crisi coincide con l’inizio della globalizzazione. L’illusione europea era che l’Europa fatta unificando il mercato imponesse il suo modello ad un mondo che a sua volta si unificava nel mercato. Fu un errore fatale: è stato il mondo globalizzato ad imporre i suoi schemi all’Europa. Trovandola impreparata e creando effetti non particolarmente positivi».

Quali?
«Ad esempio, l’Europa è stata l’unica ad eliminare i dazi.Importa prodotti fatti in Paesi privi di regole mentre fabbrica chilometri di regole per le imprese europee. Se posso ricordare, nel 1995 scrissi il libro Il fantasma della povertà: parlava proprio di questo».

Ora c’è molta attesa per l’esito delle elezioni europee del 2024, che potrebbero produrre uno spostamento a destra della maggioranza nel parlamento europeo. Potrà cambiare qualcosa?
«La guerra può produrre una discontinuità nella struttura politica dell’Europa e può essere rigenerativa, nel senso che dicevo. Deve esserlo. Senza entrare in discorsi sui risultati dei singoli partiti, le elezioni possono produrre l’unione tra due parti sinora diverse e separate d’Europa: l’Europa basica e dogmatica di Bruxelles, quella che abbiamo conosciuto finora, e l’Europa dell’est. Se vogliamo dirlo con un’immagine, l’Europa delle regole scritte sulla Gazzetta ufficiale e l’Europa che vive nelle tradizioni».

Due visioni dell’Europa che appaiono inconciliabili.
«L’Europa delle regole è quella che ha dichiarato la Polonia fuori dalla “rule of law”. Un mese dopo la Polonia è stata messa sugli altari perché ha accolto i fratelli ucraini. Se le elezioni europee, conseguenti o a ridosso della guerra in Ucraina, possono avere un senso reale, è quello di creare un ponte tra le regole di Bruxelles e le tradizioni, lo spirito eroico e patriottico, ma pur sempre europeo, dei Paesi dell’est».

Lo spirito delle donne polacche che si inginocchiano per strada davanti al monsignore.
«È uno spirito diverso da quello di Bruxelles, ma l’Europa deve rispettarlo. Anche perché – credo di avere il copyright sulla formula – la democrazia non è McDonald’s, non si esporta: cresce dal basso. L’Europa di Bruxelles ha aggiunto alle grandi regole democratiche una infinita quantità di regole burocratiche. L’Europa dell’est ha meno regole e più tradizioni. È il momento di ricongiungerle».

Ben prima del voto europeo l’Italia dovrà decidere se stare dentro o fuori la Belt and road, l’intesa per la nuova via della Seta promossa dal regime di Pechino, alla quale il primo governo Conte aderì nel marzo del 2019. L’Italia è l’unico Paese del G7 che ha siglato quell’accordo. E a Washington non apprezzano che un membro della Nato abbia un rapporto così stretto con Pechino.
«Se la forma è sostanza, la forma basica della Belt and road – curioso il nome inglese – è politica. La nuova via della seta, annunciata dal presidente Xi Jinping nel 2013, è stata introdotta prima nello Statuto del Partito comunista e nella Costituzione cinese. Poi la forma è divenuta sostanza ed è emersa la Belt and road. Ancora nel gennaio del 2017, a Davos, Xi Jinping fece un intervento tutto in difesa della globalizzazione. Negli Stati Uniti aveva appena vinto Trump: “Make America great again”. La Belt and road veniva presentata al mondo come l’alternativa cinese al nuovo protezionismo americano».

Cosa è stata?
«Perla Cina è uno strumento politico: non solo commerciale e finanziario – pensiamo ai prestiti erogati da Pechino – ma, appunto, geopolitico. Con una forte dimensione simbolica e una sua cinematografia, che rievoca Marco Polo e le rotte millenarie che vanno dall’Asia verso l’Europa».

Per l’Italia doveva essere invece un’opportunità commerciale e nulla più. O almeno così era stata presentata da quel governo.
«Nel 2019 l’Italia visse un periodo di euforia politica. Dal balcone di palazzo Chigi era stata abolita la povertà e nei saloni dei palazzi fu avviata la nuova geopolitica italiana, con le solenni cerimonie di firma e l’accordo affatto particolare di Luigi Di Maio sulle arance».

Il risultato?
«Il risultato è stato un paradosso: noi abbiamo avuto molta forma, ma poca sostanza commerciale, mentre altri Paesi, europei e non solo, hanno ottenuto più sostanza di noi senza tante cerimonie. Tra l’altro, l’export della Cina verso l’Occidente è fatto per metà da prodotti fabbricati in Cina da industrie occidentali, non necessariamente italiane. L’interscambio di altri Paesi occidentali con la Cina è aumentato assai più del nostro, nonostante il coinvolgimento italiano nella Belt and road sia andato dal porto di Trieste a quello di Palermo. Il dubbio che c’era allora, e che è rimasto, è se i binari che si diramano da quei porti servissero per portare merci italiane in Cina o per importare merci cinesi in Europa».

Dopo la visita di Giorgia Meloni alla Casa Bianca, da Pechino hanno avvertito il governo italiano di non dare retta agli americani, che ci chiedono di non rinnovare l’intesa. Si rischiano ritorsioni commerciali cinesi sulle nostre imprese.
«È presto per formulare valutazioni sulla eventualità e il peso di eventuali ritorsioni. La scelta spetta al governo. Ma è chiaro che non si tratta solo di una questione commerciale. Per i cinesi, e anche per gli americani, è una grande partita geopolitica».

Stupisce che l’Italia e gli altri Paesi europei trattino con la Cina singolarmente, in un rapporto di evidente inferiorità politica ed economica. Non sono queste le cose che dovrebbe fare la Ue?
«Sì. Tra le competenze dell’Unione europea la più forte e primordiale è proprio quella commerciale. Non a caso fu Romano Prodi, presidente della Commissione di Bruxelles, a firmare nel 2001 l’accordo per l’ingresso della Cina nella Wto, l’Organizzazione mondiale del commercio. Adesso, invece, non si vede alcuna iniziativa dell’Europa, ma solo dei singoli Stati. È curioso che un’Unione che ha una delle sue poche competenze esclusive nella politica commerciale si disunisca sulla Belt and road, che formalmente è un’intesa commerciale, almeno dal lato italiano. Mi faccia dire, però, che il problema dell’Italia è un altro».

Quale?
«La guerra in Ucraina non è solo una guerra, è anche una rivoluzione della struttura europea. Finora un blocco enorme dell’economia europea, che parte dalla Germania e gira intorno alla Germania per arrivare fino alla “motor valley” italiana, si è basato sull’import di energia a basso costo dalla Russia e sull’export di beni ad alto valore aggiunto in oriente. La guerra ha un impatto enorme su questo schema: l’import di energia a basso costo dalla Russia è saltato e sta diventando problematico l’export in Cina. La discussione sulla Belt and road è importantissima, ma non si può ignorare che il resto dell’Europa sta giocando una partita reale e gigantesca con la Cina. E forse anche questo è un punto su cui riflettere»

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