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Perché non dobbiamo lasciare Calvino alla sinistra

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Italo Calvino visto da Tullio Pericoli

Va separata la militanza nel Pci (abbandonata nel '57) dalla produzione letteraria dello scrittore Dopo il periodo del neorealismo, il suo immaginario fiabesco è diventato memoria collettiva

Francesco Specchia
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Apolide dell’anima, distruttore di certezze politiche, cartografo di una letteratura impossibile, a cent’anni dalla sua nascita, è tempo di mettere a Italo Calvino il vincolo dei beni culturali. E di strapparlo gentilmente all’appannaggio della sua sinistra d’origine.
Certo, Calvino non sarà un conservatore come il Pasolini predicato dallo Zeit Geist, dallo spirito del tempo meloniano; ma occorre che anche la destra, oggi, ne riconosca il carattere di “patrimonio dell’umanità”.
L’idea di partenza è quella (come è avvenuto per Umberto Eco, il quale impazziva per i “fasci” Borges, Gide e Celine, amava Topolino; e fu l’unico a paragonare il Superuomo di Nietzsche ai fumetti di Superman, l’essere più patriottardo della società americana) di distinguere il Calvino politico dalla sua produzione letteraria, che, in ogni immaginario italiano e in tutte le lingua del mondo diventa “memoria condivisa”.
TRA AGILULFO E SARTRE Ecco, si può dire: Calvino è il 24 aprile e al contempo, il 4 novembre della nostra letteratura. Certo, la narrazione era diversa.
Questa cosa di «Calvino zecca comunista» era un pregiudizio banalotto; circolava tra i miei compagni di liceo e università che si abbeveravano solo a Tolkien, Mishima, Evola e - i più liberali - a Adam Smith: E mi aveva sempre profondamente turbato. Fino alle medie, le favole moderne di Marcovaldo e le sue nuvole gonfie di pioggia e sospiri, scaricate sulla vita delle grandi città industriali, erano state parte della mia infanzia. E l’Agilulfo paladino di Carlomagno Cavaliere inesistente in un’armatura scintillante, per me, era tutto tranne che una metafora del capitalismo. E Pin, l’orfanello che inciampa nel Sentiero dei nidi di ragno rappresentava il racconto dello stupore infantile e della resistenza partigiana combattuta da comunisti, ma anche da cattolici, azionisti, liberali e, quindi, simbolo d’una libertà d’ogni colore politico. Poi, col tempo, l’immagine della lotta di classe e di Calvino che entra a vent’anni nel Pci per mettersi, come Sarte, al servizio della bandiera rossa-la-trionferà; be’, prese il sopravvento sulle ragioni letterarie del cuore. I miei professori raffigurarono quell’hombre vertical come un compagno appesantito dall’ideologia marxista. Non che fosse del tutto sbagliato.

Però, a ben vedere, in un’ottica più contemporanea, Calvino esondava dalle coordinate geopolitiche che gli avevano (e avevamo) assegnato. «La mia scrivania è un po’ come un’isola: potrebbe essere qui come in un altro Paese», scriveva lui, italiano nato a Cuba, figlio di due scienziati eccelsi, una vita a Roma con dépendance a Parigi, conferenze in giro per l’Europa e gli Usa e una casa di villeggiatura a Castiglione della Pescaia. E attraverso la metafora della scrivania-zattera, Calvino dimostrava di essere «in fondo un eremita ovunque. Ma con i piedi ben piantati nei suoi romanzi», scrive Luigi Mascheroni. Ma è attraverso questa sua affezione per i vagabondaggi fisici e interiori che Calvino si scosterà, via via, dall’impegno politico.

Lo si legge nella famosa lettera «d’amore» da lui pubblicata sull’Unità il 7 agosto 1957. In in cui, in aperto dissenso con le rivolte di Budapest del ’56 lo scrittore, appoggiando la mozione Cgil di Giuseppe Di Vittorio, condanna la successiva invasione dei carri armati russi e si dimette dal Pci. «Sono consapevole di quanto il Partito ha contato nella mia vita» scrive Calvino «ho avuto modo di conoscere la vita del Partito a tutti i livelli (...); ho vissuto sempre la pena di chi soffre gli errori del proprio campo, ma avendo costantemente fiducia nella storia; non ho mai creduto che la letteratura fosse quella triste cosa che molti nel Partito predicavano, e proprio la povertà della letteratura ufficiale del comunismo m’è stata di sprone a cercar di dare al mio lavoro di scrittore il segno della felicità creativa; credo d’esser sempre riuscito ad essere, dentro il Partito, un uomo libero». Tranchant. E anni dopo, nel 1979, ribadisce a Repubblica il senso feroce del suo gesto: «Io sono uno di quelli che hanno lasciato il Partito comunista nel 1956-57 perché non si destalinizzava abbastanza in fretta. Ma cosa dicevo quando Stalin era vivo e lo stalinismo era accettato senza discussione all’interno dei partiti comunisti? Ero o non ero stalinista anch’io? (...)». E aggiunge rinnegando gli aspetti rasserenanti del suo Diario di un viaggio in Urss: «La mia vera colpa di stalinismo è stata proprio questa: per difendermi da una realtà che non conoscevo, ma in qualche modo presentivo e a cui non volevo dare un nome, collaboravo col mio linguaggio non ufficiale che all’ipocrisia ufficiale presentava come sereno e sorridente ciò che era dramma e tensione e strazio. Lo stalinismo era anche una maschera melliflua e bonaria che nascondeva la tragedia storica in atto». Sicché questo è il momentum. L’istante esatto in cui Calvino rinnega la militanza e il racconto neorealista; e, alla J.L.Borges, getta il cuore nel fantastico, notoriamente territorio vagheggiato a destra. Certo, Calvino non era di destra. E il suo fantastico – vivaddio non è Tolkien, né Lewis; somiglia di più, forse, alla favolistica di Gianbattista Basile filtrata dalle sperimentazione del movimento francese Oulipo di Raymond Queneau che lui frequentò negli anni parigini, assieme a Barthes e Lèvi-Strauss. Tra l’altro, lo stesso Calvino ammetteva di essere un reietto dei salotti radical chic dell’epoca «sono tutti amici ma Galli mard non mi chiama mai...», si rammaricava, con la moglie, del cocciuto disinteresse nei suoi con fronti del grande editore. E Carlo Ossola nel suo saggio Italo Calvino l’invisibile e il suo dove, cristallizza lì «il nostro classico del Novecento, nella sua capacità di cancellare tutto l’inessenziale, per ottenere il dono supremo dell’arte».

D’altronde, come si ammette nello speciale di Raitre Italo Calvino nella foresta del racconto , scrivendo, proprio nel ’57, Il barone rampante, Calvino s’identificherà nel nobile Cosimo Piovasco di Rondò, indomabile ribelle che sale su un albero per non discenderne più. Il volontario esilio dell’intellettuale dalla militanza , l’esatto contrario, appunto del credo di Sartre, o degli organici all'egemonia gramsciana tanto di moda in Italia.

Qui Calvino esce definitivamente dall’orbita della denuncia sociale. Scrive infatti nel ’60 in una nota a I nostri antenati: «Era la musica delle cose che era cambiata. La realtà entrava in binari diversi, esteriormente più normali, diventava istituzionale; le classi popolari era difficile vederle se non attraverso le loro istituzioni; e anch’io ero entrato a far parte d’una categoria regolare: quella del personale intellettuale delle grandi città, in abito grigio e camicia bianca.

Così, in uggia con me stesso e con tutto, mi misi, come per un passatempo privato, a scrivere “Il visconte dimezzato”, C’è dell’altro, oltre al Visconte. Se proprio si vuol battuteggiare, e cogliere una sfumatura umoristica, be’, quando una cannonata turca colpisce al petto Medardo di Terralba, la parte “cattiva” del Visconte dimezzato che ne esce, in fondo, è quella sinistra; mentre la parte destra è quella buona (se non buonista). Epperò, in quel mentre, per tornar seri, il dimidiamento di Medardo, la sua scissione intima, si sovrappone a quella dello stesso Calvino che si richiama alla divisionetrabene e male del Dottor Jekyll e Mister Hyde di Stevenson, latore di un’idea avventurosa dell’esistente stratificata sia destra che a sinistra. E potremmo fare discorsi simili per Le cosmicomiche, Le città invisibili, Se una notte d’inverno un viaggiatore.

Ecco: è nella categoria calviniana della «favola morale» che si sono costruite le infanzie di generazioni di italiani; i quali non sospettavano affatto di nutrirsi dei mondi fantastici di un pericoloso comunista. Quello ce lo spiegarono dopo, i nostri amici dagli opposti estremismi. In una conferenza del 1976 dal titolo Usi politici giusti e sbagliati della letteratura, Calvino si interrogava sul Lo scrittore Italo Calvino nacque il 15 ottobre 1923 a Santiago de Las Vegas, L’Avana (Cuba), e morì il 19 settembre 1985 all’ospedale Santa Maria della Scala, a Siena.

Intellettuale di impegno politico, civile e culturale, è stato uno dei narratori italiani più importanti del secondo Novecento. Il 6 giugno 1984 Calvino viene invitato all’Università di Harvard a tenere un ciclo di lezioni, mai svolto a causa della morte (Getty) ruolo della letteratura all’interno della società, in un momento storico in cui confessava amaramente di provare «due sensazioni di vuoto: il vuoto d’un progetto politico in cui io possa credere, e il vuoto d’un progetto letterario in cui io possa credere». Aggiungeva che «allo scrittore è data la possibilità di occupare lo spazio vacante d’un discorso politico».
 

SPAZIO POLITICO Si tratta, secondo Calvino, di un «compito che si presenta troppo facile» perché consiste nell’invito ad «alzare la voce» e a presentare «idee di effetto sul pubblico», magari sotto la pressione dei mass-media che spingono a «scrivere sui giornali, a partecipare alle tavole rotonde televisive, a dare la sua opinione su qualsiasi cosa possa egli sapere o non sapere». Era, il suo, un modo per affermare che la sua letteratura era di tutti; e che mai sarebbe mai passata dalle forche caudine di un talk show. Un motivo ulteriore per proclamarlo patrimonio dell’umanità.

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