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Selvaggia Lucarelli e il bisogno di giornalismo autorevole nell'inesistente autorevolezza dei social

Francesco Specchia
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«Il giornalismo consiste principalmente nel dire “Lord Jones è morto” a persone che non hanno mai saputo che Lord Jones fosse vivo...». Qualcuno nel momento in cui la cronaca s’infiamma sul caso della ristoratrice sottoposta a - vera o presunta che sia - gogna mediatica prima del suicidio, rispolvera la massima di Chesterton sulle storture del nostro mestiere. Assieme alle solite, feroci domande: qual è la notizia autentica? Quando c’è l’impellenza di darla? Quanto, come e perché se ne devono calcolare le conseguenze? 

Non entro nel merito dell’opportunità da parte di Lorenzo Biagiarelli di insufflare il sospetto verso il post di denuncia sessista, ritenuto in odore di fake news, della ristoratrice defunta (tra l’altro, la fidanzata dello chef, Selvaggia Lucarelli, con la Ferragni ha firmato un ottimo lavoro giornalistico). Ma è indubbio: questo caso rispolvera i problemi attualissimi legati alla legge - bavaglio, alla libertà di informare, al giornalismo come servizio pubblico. Si ripropone un quesito che viaggia di pari passo con l’evoluzione del Robot Journalism, delle cronache automatiche dettate dall’intelligenza artificiale, il “metodo Chat Gpt”: in che misura le notizie che oggi affollano i social possono confondere la realtà e manipolare i giudizi dei lettori? Charles Beckett lo chiama «giornalismo reticolare»: è la bizzarra propensione del web di concedere la stessa dignità di notizia al New York Times e alla voce del primo terrapiattista di passaggio.

 

Tecnicamente, mettere sullo stesso piano la verità fattuale con una minchiata non è punibile, ma eticamente comporta malafede. Trent’anni fa il Citizen Journalism, il giornalismo dettato dai social nascenti, fatti di immagine, filmati e pezzi firmati da gente comune, diede -bisogna ammetterlo- sicuramente una svegliata al nostro ambiente approssimativo, spesso corrotto, intorpidito dalla pigrizia autoreferenziale.

Ma ci fu un momento in cui, a dare voce al popolo, si esagerò. Già nel luglio 1986, quando Radio Radicale in procinto di chiudere mandò in onda, senza filtro, le telefonate degli ascoltatori registrate, s’intravide l’anticamera dell’inferno. Migliaia di anonimi odiatori riempirono la segreteria di turpiloqui, bestemmie, minacce contro politici, extracomunitari, forze dell’ordine; il tutto in uno «sfogo liberatorio» giustificato dal fatto che qualcuno li avrebbe finalmente ascoltati. «Radio Parolaccia» fu un esperimento che Marco Pannella a replicò nel ’91 e nel ’93, ottenendo di ripristinare il finanziamento pubblico per la sua radio. Ma, inconsapevolmente, tracciò un solco. Un solco devastante.

Uno vale uno, dire Grillo. Sicchè le pirlate di un meccanico frigorista, di un contabile, di un insegnante di greco che s’improvvisa virologo, geopolitico o costituzionalista, non sono soltanti atti drammaturgici. Non è soltanto il gusto della querelle, quello che attraversa i post degli haters di ogni coloritura politica coperti da nickname vigliacchetti; e parliamo di gente priva di qualsiasi competenza epperò forte del fatto che, nella bolla del web, la sua opinione vale quella di studiosi delle materia specifica, giornalisti esperti, intellettuali. Ma non è affatto così. La conseguenza dell’abolizione della gerarchia e dell’incrocio delle fonti e della libertà totale di spararla porta all’oclocrazia greca, la forma più degenerativa delle democrazie. Siamo alla mostarda informativa, laddove il “lattaio dell’Ohio” o la “casalinga di Voghera” non sono più i destinatari delle notizie, ma addirittura le creano. Il caos, in sostanza. Scriveva, nel merito, Stefania Carini sulle pagine di Link la rivista di Idee per la televisione di Mediaset: «Non è più questione di verità e bugie. Nella comunicazione informativa attuale anche dimostrare scientificamente la falsità di alcune posizioni non conta più. Se la confusione è continua e totale, quello che finisco per credere è che tutti mentano, in un modo o nell’altro. Non c’è più autorità che tenga, o quasi. Il caos è la finalità ultima.

E serve. Ecco perché vincono le fake news. Possono essere generate per fare soldi, per propaganda sotterranea, per errore voluto o subìto dai media ormai travolti dai meccanismi sopra descritti». E il discorso si allargava, così, d’emblée, ai social media che diventavano le nuove agenzie stampa; e ai tweet e ai like trasformati per magia in notizie; e ai trending topic vestiti come «la voce del paese, il sondaggio plausibile, l’opinione pubblica. Senza riscontri, senza verifiche, senza parametri. Il meccanismo è doppio. Qualche tweet entra in circolo, vero o falso non importa, ed è rilanciato da blog, giornali, tv. Un cinguettio entra nell’agenda, anzi diventa l’agenda». La verità vera è che, nella palude delle fake news pescate nel mare sempre più oceanico del «giornalismo reticolare», oggi tutti gli indicatori registrano un disperato bisogno di giornalismo autorevole, competente, certificato. E i social hanno il problema dell’autorevolezza inesistente. Nella velocità delle notizie in tempo reale, il pubblico dovrebbe privilegiare, oggi più che mai, la professionalità. E qualche volta accade. Anche se sono sempre più i cronisti del nulla che pensano che la mitica morte di Lord Jones sia comunque instagrammabile...

 

 

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