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Test psicologici ai magistrati, Cerveri; "Non è una diagnosi e si fa da ottant'anni"

Giancarlo Cerveri

Claudia Osmetti
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«Questo test è nato negli Stati Uniti negli anni Trenta ed è stato formalizzato, nella sua prima versione, nel 1942. È stato applicato così tante volte...». Giancarlo Cerveri è il direttore del dipartimento di Salute mentale alla Asst di Lodi, in Lombardia, e fa parte del Consiglio esecutivo della Sip, la Società italiana di psichiatria. Il Minnesota test, al secolo l’Mmpi, l’esame psicometrico che, dal 2026, sarà necessario per l’accesso in magistratura: Cerveri l’ha studiato.

Dottor Cerveri, in due parole: a cosa serve?
«Tenta di dare una dimensione numerica alla struttura personologica degli individui».

Quindi non fa nessuna diagnosi?
«No, nessuna. Guardi, le diagnosi vengono fatte coi colloqui clinici, le valutazioni anamnestiche, le raccolte di informazioni... Non basta un punteggio per dire che una persona ha una sindrome diagnostica. L’Mmpi, però, può essere usato come strumento di attenzione».

 



 

Cioè una sorta di campanello d’allarme?
«Dà indicazioni su situazioni che meritano di essere approfondite, questo sì. Infatti viene già utilizzato nello screening per le selezioni delle forze dell’ordine. Oppure, posso fare un esempio?».

Prego.
«Adesso non esiste più, ma fino a qualche anno fa c’era la valutazione preliminare per il servizio militare. Lì era presente una short form (una versione ridotta, ndr) di questo test: 100 domande e se si dava risposte abnormi si veniva mandati a parlare con lo psichiatra o lo psicologo».

Come funziona?
«È stato pensato utilizzando una serie di oltre 500 domande poste sia alla popolazione generale che a soggetti con uno specifico quadro patologico. I quesiti a cui gli appartenenti al secondo gruppo tendono a dare risposte uniformi sono stati considerati specifici per una determinata dimensione “personologica”».

Ma esistono risposte giuste e risposte sbagliate?
«No. È un test clinico che aiuta a comprendere meglio gli aspetti della persona che si ha di fronte, tutto qui». 

Può essere alterato?
«Esistono tre scale di “validità”, o di correzione, che indagano se un soggetto tende a mentire».

In che modo?
«Con delle domande contraddittorie l’una rispetto all’altra. Se uno risponde in maniera differente, tendenzialmente può essere incline alla menzogna. Tenga presente che in un test di questo genere, e per motivazioni diverse, c’è chi vuole iper-rappresentare il suo disagio psichico e chi vuole nasconderlo».

 

 

Quindi queste scale dicono se è valido o no. E le “scale cliniche”?
«Sono dieci e rappresentano le patologie che venivano identificate quando il test è stato messo insieme. C’è l’ipocondria, la depressione, la deviazione psicopatica, la paranoia, la schizofrenia, ipomaniacalità, l’introversione sociale, un altra è addirittura la mascolinità e femminilità. Agli inizi del Novecento l’omosessualità era ancora considerata una malattia psichiatrica...».

Mi scusi, ma allora questo test non è un po’ datato?
«Ci stavo arrivando. Queste sono le scale originarie, il test è stato riproposto negli anni Novanta in una forma più attuale: la questione mascolinità e femminilità è stata profondamente modificata, sono state introdotte domande sull’ideazione suicidaria o sull’abuso di alcool e stupefacenti che negli anni Trenta non erano considerate centrali. Fra tutti i test psicometrici che abbiamo l’Mmpi ha alcuni vantaggi».

Quali?
«È stato il primo a rispondere al desiderio di oggettivare il più possibile l’elemento psicologico ed è stato utilizzato su una quantità enorme di persone. I dati che abbiamo non hanno eguali a nessun altro test». 

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