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Papa Francesco, altro che lapsus: ha usato il metodo gesuita

Andrea Morigi
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«Gli sarà sfuggito», minimizzano alcuni sacerdoti, pur condividendo nella sostanza la preoccupazione espressa dal Santo Padre per il sovraffollamento di omosessuali nei seminari. Certo, a meno che per bocca del Pontefice stesse parlando indirettamente lo Spirito Santo, circostanza da non escludere a priori, l’incidente dal quale è scaturita la denuncia della «frociaggine», sembra applicare un’altra espressione tipica romanesca: «Quanno ce vo’, ce vo’». Anche se in altri termini, nella Chiesa cattolica c’è chi lo ha teorizzato in modo esplicito.

E anche piuttosto recentemente, stando a una citazione di san Josemaría Escrivá de Balaguer- che nel secolo scorso fondò l’Opus Dei- dal capitolo «Tattica» della sua opera Cammino: «La soluzione è questa: innanzitutto, raccomandarli a Dio e riparare; poi..., affrontarli virilmente e impiegare “l’apostolato delle parolacce”».

Insomma pare che Papa Francesco non l’abbia sparata poi così grossa. 

 

 

Anzi, nella formazione dei gesuiti si va decisamente per il sottile nell’analisi del linguaggio. E padre Jorge Mario Bergoglio, attraverso i decenni, è sistematicamente passato attraverso gli Esercizi spirituali del fondatore della Compagnia di Gesù, Ignazio di Loyola. Il quale ricorda, nella parte dedicata alle «regole per riconoscere gli scrupoli», che va individuata innanzitutto la provenienza delle suggestioni.

Può essere l’avversario, cioè il demonio, a tentare di convincerti ad andare fuori strada, con false motivazioni.

Oppure, può generare falsi dubbi. Così, «quando un’anima buona vuole dire o fare qualche cosa a gloria di Dio nostro Signore, nella fedeltà alla Chiesa e secondo la mente dei superiori, se gli viene dal di fuori il pensiero o la tentazione di non dire o di non fare quella cosa, con il pretesto di vanagloria o d’altro, allora deve elevare la mente al suo Creatore e Signore: se vede che quella cosa è per il suo debito servizio, o almeno non contraria, deve agire in modo diametralmente opposto a quella tentazione, come dice san Bernardo: «Non ho incominciato per te, né per te finirò». La via della perfezione è irta di trappole per chi punta al Paradiso. Per evitarle, i gesuiti hanno imparato a non lasciarsi turbare troppo dai dubbi, per procedere più spediti, con la parresia evangelica, cioè l’opposto dell’ipocrisia. «Agere contra» nella mentalità ignaziana significa innanzitutto fare il contrario del peccato.

 

 

Vista attraverso la griglia interpretativa della cultura che ha forgiato la vocazione sacerdotale dell’attuale vescovo di Roma, la frase che da lunedì sta facendo il giro del mondo rientra tutta all’interno del progetto di una comunità ecclesiale in uscita dalle sacrestie e scevra dal clericalismo. Nella sua Evangelii Gaudium, nel 2013, ripeteva «ciò che molte volte ho detto ai sacerdoti e laici di Buenos Aires: preferisco una Chiesa accidentata, ferita e sporca per essere uscita per le strade, piuttosto che una Chiesa malata per la chiusura e la comodità di aggrapparsi alle proprie sicurezze. Non voglio una Chiesa preoccupata di essere il centro e che finisce rinchiusa in un groviglio di ossessioni e procedimenti. Se qualcosa deve santamente inquietarci e preoccupare la nostra coscienza è che tanti nostri fratelli vivono senza la forza, la luce e la consolazione dell’amicizia con Gesù Cristo, senza una comunità di fede che li accolga, senza un orizzonte di senso e di vita». Indignarsi senza porsi nella prospettiva missionaria, effettivamente, sarebbe un po’ inutile. Per non dire «da checche». 

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