Finora non si erano mai avute prove concrete dei combattimenti tra uomini e animali selvatici nell’antica Roma, ma un recente studio su alcune ossa ritrovate nel 2004 durante scavi archeologici a York, nell’attuale Regno Unito, ha analizzato dei resti umani confermando la veridicità di queste lotte cruente. Lo scheletro appartiene a un uomo di età compresa tra i 26 e i 35 anni e le analisi osteologiche hanno rivelato segni di morsi su ossa pelviche, compatibili con quelli lasciati da un felino come il leone. I ricercatori hanno paragonato questi segni con quelli di persone moderne aggredite da leoni negli zoo, scoprendo una corrispondenza perfetta. La posizione dei morsi e l’assenza di segni di guarigione fanno dedurre che l’uomo sia stato ucciso in seguito a un combattimento con il leone, senza che i morsi stessi fossero fatali immediatamente. I ricercatori, guidati dal professor Tim Thompson dell’Università di Maynooth, hanno notato che altri scheletri ritrovati in questa stessa area mostrano segni di violenza, pratiche tipiche dei gladiatori, suggerendo che il cimitero fosse un “cimitero per gladiatori” e non per soldati o schiavi, come inizialmente ipotizzato.
Arriva dunque un punto fermo tra tante narrazioni farlocche di una delle più celebrate figure dell’immaginario della Roma antica. Ad alimentare molte notizie false hanno contribuito nel tempo le rappresentazioni fantasiose del cinema, quelle seriali, letterarie e videoludiche. Ma che in una materia di studi così complessa anche la storiografia seria soi-disantproponesse molte fake news, ci era francamente ignoto. Ora è arrivato in libreria La vera storia dei gladiatori (Garzanti, 352 pagine, 19 euro,) scritto da Luca Fezzi e Marco Rocco, che rimette le cose al loro posto provando a smottare un ben po’ di quei luoghi comuni che, nei secoli, hanno offuscato l’immagine di questi valorosi combattenti. Intanto cominciamo col dire che la celeberrima frase morituri te salutant (coloro che stanno per morire ti salutano) detta dai gladiatori prima di scannarsi al cospetto dell’imperatore, è un falso storico, una fesseria da film peplum anni ’60. E sapete perché? Perché l’unica testimonianza possibile di quella frase è quella che Gaio Svetonio Tranquillo inserisce nella Vita dell’imperatore Claudio e si riferisce non alle parole di un gladiatore, ma a ciò che dissero alcuni dei 19mila condannati a morte che si prestarono alla cruenta rappresentazione sul Lago Fucino di una battaglia navale tra rodiesi e siciliani. La testimonianza riporta anche che Claudio rispose “forse no” e molti di questi rincuorati rinunciarono a combattere. In altri termini, scordiamoci dell’immagine canonica del pollicione. La prova? Un medaglione databile tra il II e III secolo rinvenuto nel 1997 a Nimes nel quale si rappresenta che per giustiziare il richiedente il pollice era rivolto sia verso l’alto sia verso il basso, mentre per accordare la salvezza si piegava o stringeva «il dito all’interno del pugno chiuso, a imitazione di una spada rinfoderata». Gli autori si soffermano anche su alcune ricostruzioni disinvolte presenti in uno dei film tra i più celebrati in materia, IlGladiatore di Scott del 2000. «Solo il trailer rivela altri elementi improbabili (tra cui una naumachia nel Colosseo del III secolo e un combattimento con un rinoceronte usato però come cavalcatura!)», scrivono gli autori.
A non dire della battaglia di Salamina nel Colosseo (con gli squali!) sotto gli imperatori Geta e Caracalla nel terzo secolo dopo Cristo. Altra fesseria: i gladiatori non erano i soli impegnati a scannarsi nelle arene, o in venationes (lotte contro animali feroci) e naumachie (battaglie navali). Anche Geta e Caracalla, il duo imperiale crudele e dissennato, amavano questo genere di passatempo. Gli autori del libro fanno notare un altro aspetto interessante di come venivano impiegati i gladiatori. Siamo nel 264 a.C. nella zona dell’odierna piazza in cui si trova la Bocca della Verità. Si stanno consumando le esequie del senatore Decimo Giunio Bruto Pera. «Sono in pochi però a non restare sorpresi dall’inattesa comparsa al termine dell’incinerazione di alcune figure armate: tre coppie di combattenti (. ..) le quali, avvicendandosi nella piazza, si scontrano sotto gli occhi dei convenuti». Si tratta della prima testimonianza di un duello tra gladiatori, combattimenti come «servizi dovuti in onore dei defunti». Pratica che sembra fondare le sue radici, comunque, fuori Roma, «nei cruenti riti funebri diffusi tra etruschi e campani», scrivono Fezzi e Rocco, tanto che su alcune urne etrusche del III secolo a.C. vengono ritratti «combattimenti tra pugili o uomini armati (...) ora nudi o cinti da un perizoma o un corto mantello, provvisti di spada e scudo rettangolare o circolare».
I gladiatori non erano soltanto carne da macello. Giulio Cesare e Augusto ne apprezzarono il valore di combattenti. Anzi, col tempo divennero vere e proprie figure mitiche, simbolo di coraggio, forza, ma anche di un’esistenza tragica. Non solo. Essi non appartenevano esclusivamente alla plebe: a Roma, tra il pubblico in delirio nelle arene, potevano esserci anche senatori e patrizi. Infine, non poteva mancare nel saggio la celebre figura di Spartaco, il gladiatore che capeggiò una ribellione contro Roma nel I secolo a.C., divenuta, nel corso dei secoli, una delle più potenti metafore di lotta contro l'oppressione. Il saggio di Fezzi e Rocco è una miniera inesauribile di dettagli storici, anche i più minimali. Prendete il capitolo Lo spettacolo della morte dove si entra letteralmente nelle arene dei combattimenti. Troviamo così anche la rivendita di biglietti modello bagarinaggio per i posti più ambiti da cui seguire i truculenti eventi; l’evoluzione di elmi e armature e la quasi assenza di fonti per le tecniche di combattimento (i gladiatori mancini erano comunque molto apprezzati); la prova reale su scheletri che per dare il colpo di grazia ai gladiatori uccisi si usavano perfino enormi martelli.