Tre strambi tipi sbucano nel paese di Sanfilippo – si fanno vedere in piazza – e la vita dei paesani diventa una girandola straordinaria di eventi che vanno a scomodare financo Dio. Tutto questo in un giorno qualunque. Ed ecco Il Tredicesimo apostolo, la prima parte del romanzo di Angelo Ascoli edito da Cantagalli col sottotitolo L’Alba del terzo giorno (uscirà prossimamente un secondo volume che lo completa) e comunque un libro sul quale la veste editoriale genera un equivoco e di cui è urgente liberarlo perché a giudicare dalla copertina sembra un Dan Brown mentre invece c’è tanta tanta dottrina. Quella di Michail Bulgakov. L’autore mette le mani avanti e si dichiara testimone più che scrittore. I tre strambi sbucati d’improvviso a Sanfilippo sono un gigante, un giovane e un tipo dal cappotto chiaro – ovviamente tre forestieri – ma a vederseli davanti, in piazza, assaporando il caffè, Ascoli che scrive il libro fa dei tre un apologo dell’imaginale, ossia il paese suo come una porta girevole attraverso cui il reale di una qualunque giornata transita nell’assoluto, con un professore di teoretica accanito studioso di Nietzsche, sulla soglia della follia, anch’egli tormentato – come il filosofo tedesco – dalla “morte di Dio”. Sanfilippo che è un luogo immaginario in realtà è Agira, per inciso anche il paese dell’autore e del sottoscritto recensore: una ridente località dell’entroterra di Sicilia che col Diavolo ha una familiarità antica.
Ne riferiscono fonti virgiliane – ma ancora prima Diodoro Siculo – collocandovi tra le fatiche di Eracle la più religiosa tra le dodici, ovvero l’uccisione dell’Idra, personificazione del Maligno, e individuando alle pendici del monte dove il paese sorge una delle porte degli Inferi, segnatamente “Porta Mamuni”. E Sanfilippo altro non è che San Filippo di Agira, l’esorcista venuto dalla Siria apposta per fare il lavoro che faceva Eracle, cioè scacciare i diavoli che – ormai tutti prigionieri – sono pur sempre legione in ogni angolo del paese, tutti strambi tipi comunque, sebbene lapidati o schiacciati sotto il tallone del santo per come ancora si vede sulla facciata della Reale Chiesa Abbazia. Una storia nella storia spiega il titolo di cui non si vuol qui svelare tutto ma il Diavolo, probabilmente, è “il tredicesimo apostolo”, oggi reietto in forma di monumento e adesso anche suggerito nelle pagine di Angelo Ascoli dove la letteratura è puro pretesto di raffinata teologia, quella della “morte di Dio”, l’ossessione del professore la cui vita in paese è un lancinante ripiego.
La triste storia del sole che ride
È una storia triste, anche se è la storia del Sole che ride ed era iniziata con una bella canzone: «...L’insegnante, infatti, altri non è che il già giovane di belle speranze con alle spalle una smagliante carriera giornalistica fatta di tappe presto bruciate per diventare vicedirettore di “Chi è Gente di Oggi”, un settimanale popolare, ma per mancare la nomina a direttore, quando deluso se ne torna in paese dove però i tre strambi tipi offrono a lui il giusto inciampo per affacciarsi sull’orlo dell’abisso. Il buonumore è il necessario ingrediente per affrontare il nero portale degli inferi e Angelo Ascoli, l’autore di questo avventuroso romanzo, sparge humor nelle pagine e – spericolatamente – mette parte di sé. Di suo, infatti, Ascoli, giornalista, attuale direttore di Diva & Donna è testimone e parte più che in causa. Il Tredicesimo apostolo infatti, come già con Diceria dell’Untore – il grande romanzo di Gesualdo Bufalino – è rimasto a lungo nel cassetto prima che l’autore decidesse che fosse arrivato il momento di farlo conoscere. Dà l’idea di essere stato a lungo pensato questo libro che si si può raccontare in tanti modi. Tenendo ferma l’accezione teologica, Il Tredicesimo apostolo è tanto altro. È un romanzo dove le tre donne che hanno un ruolo, rappresentano una la sensualità, il desiderio carnale, la femmina che catalizza lo sguardo di ogni uomo; la seconda la moglie trascurata eppure amata, che si è stancata di condividere il proprio letto e la propria vita accanto a un uomo che ogni giorno diviene più estraneo; la terza quella che per l’uomo medio, con definizione grossolana, lo sfigato, è inarrivabile. Quella di cui il suddetto sfigato si innamora al primo sguardo, sapendo da subito, che mai lei – sempre lei, solo lei – si accorgerà della sua esistenza.
È anche un romanzo che descrive perfettamente la mediocrità del nostro tempo. Quella del pensiero automatizzato che liscia il pelo sempre dal verso giusto, quella dell’intellettuale che scrive articoli e pubblica libri di cui l’umanità potrebbe e dovrebbe fare a meno, quello per cui «la letteratura oggi è un gioco oppure una professione» non come Dostoevskij che «se fa parlare della morte di Dio uno dei suoi personaggi, lo fa perché lui stesso nella disperazione, ha pugnalato Dio e poi è rimasto a vegliarne, piangendo, il cadavere». Ma è anche un romanzo in cui la mediocrità è il grande dolore di cui è consapevole chi giudica la propria vita, monotona e abitudinaria, una gabbia. Una storia nella storia, dunque, spiega il titolo. Dove c’è un apostolo c’è una croce e il racconto che Ascoli mette in pagina, quello della crocifissione di Gesù, ha una scrittura così incalzante e realistica da far stare male: si coglie lo strazio che Gesù ebbe a patire.
L’agonia del Dio fattosi uomo, per l’accuratezza e la vividezza con cui viene descritta, è preghiera ma ciò che rende assolutamente originale la narrazione, è l’epilogo che ne fa Ascoli: immagina che la morte abbia sconfitto Gesù. E che Gesù non sia mai risorto. Ancor più originale, infine, è l’interpretazione che l’autore dà di quei due, tre secondi che separano il grido straziante di Gesù sulla croce – “Mio Dio, mio Dio, perché mi hai abbandonato?” – dalla sua morte. Ecco il punto: Dio non risponde alla terribile domanda che il Figlio, dal supplizio della croce, gli rivolge. E il silenzio di Dio, così lo definisce l’autore, segna la fine di tutto: il trionfo della morte su una Resurrezione che non è mai avvenuta e che relega Dio padre nel genitore che, in punto di impotenza, rinnega il proprio Figlio condannandolo così a dubitare della sua stessa divinità. Il libro si conclude lasciando in sospeso la sorte dei vari protagonisti che qui ci limitiamo a indicare: un integerrimo giudice che forse non lo è, un architetto di grido che sognava la mediocrità, avendola sempre scansata, un misterioso, ricchissimo ingegnere milanese con villa sotto il vulcano, ossia ‘a Muntagna – con rispetto reverenziale e confidenza – per com’è inteso Etna chiamato a fare cornice alla storia. La storia si conclude con un epilogo che dà appuntamento ai suoi pazienti lettori, pregandoli di aspettare il secondo volume, presto pubblicato, in cui i nodi di questa storia sulfurea si scioglieranno. E non al modo di Dan Brown – non fatevi trarre in inganno dalla copertina – bensì in quello di Michail Bulgakov.