Quei 93 falli per farsi beffe del Conquistatore

Un docente di Oxford riscrive l’origine della tela lunga 70 metri: realizzata per celebrare Guglielmo, cela molti doppi sensi
di Marco Patricellimartedì 17 giugno 2025
Quei 93 falli per farsi beffe del Conquistatore
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È conosciuto come Arazzo di Bayeux, ma in realtà è una tela ricamata. Si è pure ipotizzato che il capolavoro del XI secolo fosse stato commissionato da Odone (Oddone), fratellastro di Guglielmo il Conquistatore, e fatto realizzare dalla regina Matilde, ma guardando nei particolari sarebbe difficile crederlo, e ancor di meno che possa essere stato ricamato dalle monache. Sono proprio i particolari, che spesso sfuggono a migliaia di visitatori ma chissà perché fanno dare di gomito ai turisti italiani con sguardi ammiccanti e risolini soffocati, ad aggiungere dubbi alle origini di una delle più straordinarie testimonianze storico-artistiche di un evento epocale.

La narrazione per immagini e poche didascalie in latino della conquista dell’Inghilterra da parte del duca di Normandia (di qui il nome originario di Telle du conquest) culminata nella battaglia di Hastings contiene un altro aspetto di alcune figure umane nei bordi decorativi inferiori che, pur non passati del tutto inosservati, sono finiti per assurdo in secondo piano, forse per imbarazzo. Un conto sono i cavalli, dotati di evidenti dettagli anatomici - e d’altronde nessuna censura né scandalo ci fu nel 1966 per il cavallo morente (maschio) della Rai firmato dallo scultore Francesco Messina – un conto, invece, i figli di Dio che richiamano spudoratamente il Priapo d’epoca romana. Poiché la tela del racconto non esprime certamente le specialità della casa affrescate nel lupanare di Pompei, alla ricerca di spiegazioni qualche domanda se l’è posta un docente di storia medievale all’Università di Oxford. George Garnett ha elaborato una teoria che parte dalle censite 93 raffigurazioni falliche (88 equine e 5 umane) come chiave di rilettura per attribuire la paternità dei quasi settanta metri di tela di lino ricamata nell’ultima parte del XI secolo e in esposizione al Museo Guillaume le Conquérant di Bayeux. A suo dire questo aspetto escluderebbe la paternità normanna o clerical-ecclesiastica dell’opera. Improbabile che l’arcivescovo Odone, con la sicura forza economica per far realizzare un’opera che mettesse in luce la grandezza sua e della sua gente, potesse ammettere raffigurazioni così esplicite riconducibili o accostabili a lui e alla Chiesa; risulta più verosimile che la tela potesse essere stata commissionata da un anglosassone, ricco e colto, scettico verso la propaganda normanna, estraneo però alle gerarchie ecclesiastiche e non versato neppure nelle cose militari, aspetto comprovabile dagli “errori” che riguardano sia l’aspetto spirituale quanto quello bellico.

Se l’esagerazione degli attributi equini ricade nella simbologia, in quanto le dimensioni maggiori sono applicate ai cavalli di Guglielmo, del re Aroldo e di Odone – in qualche modo per precisare la scala gerarchica e la loro potenza –, quando invece viene rapportata agli uomini il discorso si fa più complesso ed enigmatico, anche in virtù dell’esplicita connotazione sessuale: gli uomini sono nudi, le posture sono inequivocabili, le donne mostrano l’apprezzata pudicizia muliebre a fronte alla sfacciataggine maschile di prevaricazione. Per il professor Garnett questi elementi apparentemente estranei allo sviluppo logico-narrativo dell’arazzo sarebbero riconducibili alle favole di Esopo, tradotte in latino da Fedro e ben note nell’Inghilterra medievale, in cui il sesso è manifestazione di inganno, vergogna e trasgressione morale. Ne fa conseguire che l’apparizione in determinati punti della narrazione dell’arazzo di Bayeux sia strumentale a sottolineature su eventi o risvolti sospetti. Un modo indiretto per far “leggere” qualcosa che non poteva essere raffigurato esplicitamente. Ne deriverebbe altresì che i ricami in lana in nove colori nelle nove sezioni che assommano a 68,30 metri di lino, non possano essere opera delle monache, indipendentemente da allegorie e artifici vari.

L’opera, patrimonio Unesco dal 2007, è una finestra spalancata sull’Inghilterra nell’XI secolo: 58 scene con 626 personaggi (il doppio, contando indistintamente tutte le figure), spaccati di società, visioni urbane, panorami, descrizioni di armi e armamenti e ricostruzione visiva dell’impresa di Guglielmo, della vittoria su Aroldo, dell’incoronazione e della sovrapposizione tra anglosassoni e normanni. Venne attribuito alla regina Matilde agli inizi dell’Ottocento, quando Napoleone fece esporre l’arazzo a Parigi come benaugurante viatico al progetto di sbarco e di conquista dell’Inghilterra. Nel 1804 sarà comunque riportato a Bayeux. Così come brillava la cometa del 1066 nella raffigurazione a ricami di poco posteriore, nel cielo della Francia il 6 dicembre 1803 era apparso un corpo celeste infiammato interpretato come preannuncio dei successi militari del genio còrso. Lo sbarco in Inghilterra non avverrà mai, la stella di Napoleone continuerà a brillare fino alla sciagurata campagna di Russia e poi si oscurerà a Waterloo nel 1815. Le comete, secondo tradizione, non portavano bene; a differenza dei falli, stando almeno a una tradizione di mille anni prima e mille anni dopo l’affascinante arazzo di Bayeux. Su questo, almeno, tutti d’accordo, anche se i misteri restano.

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