«U n portento del secolo scorso». Così ci accoglie Luigi Iannone davanti al suo ultimo libro Ernst Jünger segreto. Vita e opere di un Anarca (pp.
362, euro 22) edito da Historica edizioni. Il tedesco, protagonista del tomo redatto dallo studioso campano e giornalista de Il Giornale, appare in tutta la sua grandezza. La sua aurea ha attraversato il ’900 in ogni sua forma e colore. Dalla Prima Guerra Mondiale - un consiglio spassionato per l’estate immergetevi nel suo Nelle tempeste d’acciaio se non lo avete già fatto- fino al volgere del secolo breve.
Nato nel 1895 a Heidelberg si è spento, quasi 103 anni dopo a Riedlingen. Su di lui si è ricamato attorno a ogni pagina, a ogni scritto, a ogni visione. Cosa aggiungere ancora, quindi? La via della conversione al cristianesimo. Andiamo a pagina 352, partiamo dalla fine del tortuoso percorso descritto da Iannone. Partiamo dal funerale. «Durante la funzione con rito cattolico, tra i vari cori anche due canti mariani; il primo, intonato dalla nipote Irina e l’altro, un canto collettivo con la confessione a Cristo (“A Lui mi voglio dare; e là trapasso in pace”)».
Il fatto colse di sorpresa molti durante la funzione, ma anche i lettori dello stesso Jünger. Perché siamo abituati a vedere il demiurgo guerriero nella trincerocrazia della Grande Guerra, l’esperto di insetti, l’uomo fuori dalla massa percorrere il bosco, il mito della Hitler-Jugend, il saggista anarca e lo sperimentatore affianco al padre della LSD Albert Hoffman, ma mai il cristianesimo.
«Durante la Prima Guerra Mondiale, Jünger non leggeva solo Goethe o i grandi romanzieri tedeschi», ci racconta Iannone, «ma anche la Bibbia. Fin dalle battute iniziali della sua vita ha riflettuto sulla chiesa, sulla religione e sui padri della fede cristiana». Una mistica allucinazione pare a prima vista. Lo ricordavamo pagano tra i pagani e invece. Nel 1989 durante un’intervista gli chiesero se fosse cristiano e lui risposte: «No, e non è neanche necessario». Il battesimo arriverà il 26 settembre 1996, a 101 anni, «al termine di un percorso graduale e riservato», come spiega il testo.
«Mi sembrava riduttivo farlo passare solo come l’operaio, l’anarca e il soldato perché la parabola di Jünger è un vortice continuo dove i suoi sono continui avvicinamenti». Ma questa visione, chiediamo a Iannone, da dove arriva? «L’ho conosciuto attraverso i suoi libri, ma non sapevo fosse ancora vivo quando mi sono avvicinato al suo pensiero. Leggendo testi come Sul dolore e Il cuore avventuroso vediamo che lo strumento della sofferenza è la chiave attraverso la quale, nel pensiero jüngeriano, viene mostrata la grandezza dell’umanità e dell’uomo. Aspetto che innalza quest’ultimo ed è proprio qui la motivazione della sua scelta finale». In nuce al guerriero c’è l’Altissimo. «La civiltà della tecnica in cui viviamo, diceva il tedesco, ci allontana dal dolore e quindi ci rende vulnerabili. Per questo dobbiamo diventare impenetrabili».
Lo immaginiamo sotto le bombe del conflitto modellare l’immagine dell’individuo tramutato in comunità con l’ascensore verso lo Spirito Santo. Un uomo agitato e agito, per dirla con Gentile, che ha inciso profondamente sul pensiero europeo a lui contemporaneo. Basta vedere il rapporto con Martin Heidegger. E che ancora nel 1992, durante l’inaugurazione del Museo della Grande Guerra a Péronne, in Francia, alla domanda su quale fosse stata l’esperienza più drammatica della sua vita rispondeva, senza esitare: «Quella di aver perso la guerra».
Ma soprattutto per andare alle pendici del mito, chiave di volta essenziale per comprendere la visione del mondo del teutonico, bisogna tornare alle immagini, non ai concetti. «Affidarsi esclusivamente», leggiamo nel libro, «a questi ultimi equivarrebbe a osservare la realtà attraverso le categorie sociali senza più vedere gli uomini».
Ecco un altro spunto per tornare alla fede. Un turbamento che sarebbe piaciuto a Benedetto XVI che vedeva in Nietzsche, il profeta dell’ateismo e del nichilismo, un irrequieto vicino a Dio ben più di tanti credenti di routine, come ricordò in un articolo qualche anno fa Marcello Veneziani.
Poi ovviamente resta il rapporto col nazionalsocialismo, l’avversione verso Goebbels, la venerazione di Hitler nei suoi confronti e il fatto che gli occupanti inglesi gli vietarono fino al 1949 di pubblicare qualsiasi opera. Resta la postura di un uomo che ha saputo posizionarsi «dove si vede molto e si è visti poco» - Gelassenheit avrebbe detto Heidegger - eppure le pallottole fischiarono tremendamente vicino alle sue orecchie, ma non lo resero sordo al tempo. Lo resero frutto prelibato dell’essere e maschera della tecnica in un’età dove il volto della vita, e quindi della morte, è stato cancellato.