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Salone del Libro, la provocazione: ricostruita la cella di Marco Sorbara

Gianluigi Paragone
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«Prego, si accomodi». Marco Sorbara ti faceva entrare così come se fosse quasi naturale. Anche se non potrà mai essere del tutto naturale risvegliare i mostri di quella camera dove Marco invitava a entrare, perché quella camera era la ricostruzione della “sua” cella di prigione. Non è tutto. Quella finta cella era allestita all’interno dello stand del Dubbio al Salone del Libro. Entrare in una cella quasi per gioco o per sfida, per provare a capire cosa sia la privazione della libertà e quindi la libertà: poteva essere la provocazione più bella, più intelligente, del Salone ma lo show contro la Roccella e le immancabili parole sulla deriva fascista del governo Meloni si sono prese i riflettori trasformando la kermesse in quello che la sinistra sa fare meglio, manipolare attraverso la cultura, mi ha raccontato Sorbara. Che a questo punto debbo dirvi perché era lì, a parlare di una cella. 

 

Marco Sorbara, la galera se l’è fatta davvero: sia nella cella di isolamento, sia in quell’altra che però in un carcere di massima sicurezza ti devasta. Una mattina del gennaio 2019, Marco è stato arrestato con l’accusa più infamante e infangante, essere colluso con la ’ndrangheta. Invece... nulla era vero e dopo quattro anni di processi è arrivata la sentenza più piena di assoluzione: non c’entrava nulla. È stato un errore, un errore giudiziario come si dice in questi casi. Intanto però ti hanno rovinato la vita e te la devi ricomporre da zero e con zero soldi. «“Come hai fatto a resistere?” Mi domandavano i ragazzi. E io ho spiegato loro cosa significa perdere la libertà ma non perdere la fede. Poi ovviamente ho spiegato la mia... storia. Anche se “mia” non doveva essere perché quelle accuse non mi riguardavano». Sorbara faceva l’assessore comunale con deleghe pesanti ad Aosta e poi il consigliere regionale. Era uno dei più votati in valle. Ed era anche calabrese. Non so in che ordine ma questi fattori sono stati determinanti per appiccicargli l’accusa di essere affiliato alla ’ndrangheta. 45 giorni di isolamento in una cella 4 passi per due; 214 in carcere e 909 in custodia cautelare. Colpevole in primo grado con una sentenza al limite del copia e incolla rispetto all’accusa del pm. Infine assolto con formula piena.

 

Chiunque oggi legge le carte dell’accusa non potrebbe che alzare gli occhi al cielo e domandarsi come si faccia a rovinare la vita a un innocente mettendo in fila degli errori così grossolani, evidenti, intollerabili in uno stato di diritto? Si fa. E dopo non cambia nulla. Perché la retorica dell’antimafia non ammette alcuna riflessione su chi sbaglia con una leggerezza disarmante! Lo scrivo a ridosso dell’anniversario della strage di Capaci che rischia di essere un esercizio retorico soprattutto a uso e consumo dei soliti. Questo vale anche per associazioni come Libera di don Ciotti, che dopo la reiterata costituzione di parte civile, di fronte a questo obbrobrio giuridico, non ha mai chiesto scusa né si è degnata di una telefonata. E allora mi domando: cari professionisti della retorica antimafia, quando sbagliate perché non chiedete pubblicamente scusa e non costruite la possibilità di riparare ai torti? Marco Sorbara oggi racconta la sua storia dovunque gli concedono un microfono perché è sacrosanto farlo; eppure non tutto di quella vicenda umana potrà essere raccontato perché certe sensazioni ti segnano profondamente e lì restano.

 

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