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Daniele Capezzone, "cucù" al posto di "Gesù"? Non è folklore...

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Daniele Capezzone
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Apocalisse farlocca a parte, siamo ormai vicinissimi a Natale, e, come vi abbiamo raccontato ieri, sembra incredibilmente sotto attacco pure la festa cristiana per antonomasia, la più gioiosa, la più familiare. No, di tutta evidenza la soluzione non può essere quella proposta dalla pur combattiva senatrice Lavinia Mennuni, e cioè una sorta di obbligatorietà del presepe.

Per evidenti ragioni liberali, un simile fallo di reazione si trasformerebbe in una clamorosa sgrammaticatura e in un autogol: non si può confondere il piano della libertà religiosa con quello di un’imposizione legislativa, sia pure - diciamo così - immaginata con le migliori intenzioni. E tuttavia non si deve nemmeno commettere l’errore uguale e contrario, e cioè quello di ritenere normale che - un passo alla volta - si affermi una sorta di divieto generalizzato delle manifestazioni esteriori di fede, anzi della fede cristiana odi quella ebraica, perché i nostri progressisti si guarderebbero bene dal proporre qualcosa del genere nei confronti degli islamici.

Intendiamoci bene. Un conto è essere giustamente sensibili ai valori liberali, e dunque diffidare di dogmatismi e ingerenze confessionali nello stato e nella legislazione. Altro conto- e questo sarebbe invece il contrario del liberalismo - è invece pretendere una speciedi cancellazione alla sovietica della libera dimensione religiosa nelle nostre società. Questa ipotesi è inaccettabile, e va respinta con forza. Non si tratta solo di evocare Benedetto Croce e il suo immortale «Perché non possiamo non dirci cristiani», ma anche di ricordare la grande lezione tocquevilliana: una società libera e aperta è uno spazio in cui le convinzioni religiose devono poter trovare la loro naturale possibilità di manifestarsi e dispiegarsi.

$ per questo che ieri - qui a Libero - ci siamo arrabbiati per la follia di Padova (con “Gesù” sostituito con “cucù” in una canzone) e con l’altra assurdità di Livorno, con i bimbi indotti a scrivere bigliettini d’auguri con l’espressione “festa di inverno”. Guarda caso (ma che combinazione!) è la stessa formula che, alcune settimane fa, era venuta fuori da una surreale decisione dell’Istituto Universitario Europeo di Fiesole: cambiare la denominazione del Natale - appunto - in “festa d’inverno”.

Guardate che non si tratta di inezie di cronaca o di stravaganze degne di una “breve”, giornalisticamente parlando. Ma sono l’ennesima testimonianza di un lavorio illiberale ormai incessante, di una “cancel culture” alle vongole che piano piano - sta finendo per attecchire anche qui.

VELO SÌ, PRESEPE NO
Rispetto ai simboli della nostra tradizione, il giochino “progressista” è fin troppo facile: una certa cultura di sinistra cerca di classificare il Natale o la fede come qualcosa di divisivo, di partigiano, di non unificante. Quindi il Corano va bene (se no, sei islamofobo) e il Vangelo no (se no, non sei pluralista), il velo è ammesso e il presepe no, e così via. Con un doppio standard insopportabile e con nessuna attenzione a un requisito minimo di reciprocità. E il guaio è che troppi- a destra e non solo - sembrano intimiditi, rispondono con la paura, arretrando, rinunciando a pezzi e connotati della civiltà occidentale.

Ma - ecco come il problema si allarga - non si tratta solo delle questioni legate alle scelte religiose. Come mai, ad esempio, continuiamo a ritenere normale che nelle nostre scuole pubbliche ci sia un indottrinamento politico a senso unico?
Chiunque abbia a che fare con adolescenti o ragazzi alle scuole medie inferiori o superiori sa bene di cosa sto parlando: un continuo rovesciamento del reale significato della parola “educare”. Educare (e-ducere) significherebbe “tirar fuori”, cioè aiutare l’alunna o l’alunno a cercare e trovare se stesso, a esprimersi.

E invece troppo spesso la dimensione scolastica è un “metter dentro”, un forzare, sia attraverso le lezioni ordinarie sia attraverso tutto il caravanserraglio delle attività collaterali (con coinvolgimento di associazioni, “esperti”, e via comiziando). Tutto all’insegna di un conformismo progressista sempre più soffocante e omogeneizzante. Curiosa e terribile nemesi: amano parlare di “diversità”, ma poi puntano a imporre una assoluta e indiscutibile uniformità. “Per il nostro bene”, aggiungono: ma pretendono di essere loro a stabilire cosa sia “bene” anche per gli altri.

ARIA DI CHIUSO 
In forme ancora diverse, è drammaticamente illiberale pure lo svolgimento del nostro discorso pubblico, della discussione politica nella società italiana di questo ultimo scorcio del 2023. Anche qui, la sinistra si muove in modo aggressivo e la destra appare troppo spesso smarrita e intimidita: ma non è normale che- sistematicamente- la posizione “progressista” sia presentata come quella civile-tollerante-caring, e quella “conservatrice” come cattiva-egoista-patriarcale-nasty. 

È un processo di intimidazione preventiva e generalizzata che passa attraverso le tv, i giornali, la cultura, gli intellettuali più celebrati e riveriti. C’è aria di chiuso nelle stanze della nostra Italia. $ il momento di aprire porte e finestre, di far circolare ossigeno, di smetterla con la criminalizzazione a senso unico di tutto ciò che non abbia la certificazione del “bollino rosso progressista”. Sarà bene che anche qualche mente illuminata a sinistra- se ancora c’èse ne renda conto: molti italiani stanno diventando giustamente insofferenti rispetto a questo clima oppressivo. Il centrodestra è chiamato ad acquisire la consapevolezza del livello della sfida culturale in atto, ma le teste più lucide della sinistra hanno un compito ancora più delicato: comprendere che non è mai una buona idea provocare la maggioranza degli elettori.

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