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Che tristezzai big della castaal tramonto

Non se ne vogliono andare: sono convinti che i responsabili del loro declino siano i media

Matteo Legnani
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    Quando era presidente degli Stati Uniti, un giorno Ronald Reagan se la prese con i giornalisti accreditati alla Casa Bianca. Durante una conferenza stampa si arrabbiò e li coprì di male parole. Come ebbe finito di strapazzarli, chiese di replicare il numero uno dei corrispondenti. E disse: «Signor presidente, i suoi insulti non ci toccano. Si ricordi che, quando lei non ci sarà più, noi saremo ancora qui, in questa stessa sala della Casa Bianca». L'episodio mi è ritornato alla mente in questi giorni, nel leggere che molti big della Casta politica non vogliono staccare e andarsene e casa. Per godersi la pensione o per trovarsi un altro lavoro e dare un senso al tempo che gli resta da vivere. Non pochi di loro non hanno mai sopportato i giornalisti che li hanno descritti, e spesso criticati, nella Prima e nella Seconda Repubblica.  Tanti big si aggrappano a una convinzione ferrea: i responsabili del declino che li sconvolge sono i media. Potremmo offrirgli la stessa risposta che venne data a Reagan: quando voi non starete più a Montecitorio o a Palazzo Madama, noi saremo ancora qui a dire peste e corna di chi prenderà il vostro posto. Sono un esercito quelli che non hanno nessuna intenzione di mollare il mazzo. Il più noto è Silvio Berlusconi, ma su di lui i lettori di Libero sanno tutto. Il Cavaliere ha compiuto da pochi giorni 76 anni, l'età giusta per dedicarsi a impegni diversi. Invece sta sempre in bilico: me ne vado, non me ne vado. Ma è un'incertezza che nasconde la gran voglia di continuare il gioco d'azzardo che gli piace tanto.  Anche sul versante opposto, quello sinistro, sta esplodendo il caso dei pensionandi. A innescarlo è stata la discesa in campo di Matteo Renzi (37 anni) e insieme il proposito segreto di Pierluigi Bersani (61 anni) di svecchiare il vertice democratico, a cominciare dal gruppo parlamentare. E il terrore di essere mandati in pensione sta provocando un caos grottesco nella nomenklatura del Pd. Mi ha colpito un'intervista a Livia Turco (57 anni) raccolta da Wanda Marra del Fatto quotidiano. Per l'anagrafe la compagna Livia non sarebbe affatto anziana, ma sta in Parlamento da ben sette legislature. La prima risale al 1987, sotto la bandiera di un partito poi scomparso, il Pci. Di lei ho scritto tante volte. Le avevo anche riservato qualche puntura di spillo: mi sembrava una sovietica nata a Cuneo. Ma la Turco se ne impipava di me e con ragione. Ero soltanto un cronista villano, mentre lei guidava le donne comuniste d'Italia e faceva il ministro della Solidarietà sociale con Romano Prodi e Massimo D'Alema. La compagna Turco ha spiegato al Fatto: «Sono pronta a lasciare. Però se lascio io, lo devono fare anche gli altri». Da questi altri, lei esclude soltanto tre big. Il primo è D'Alema. Perché? Livia risponde: «Perché ha portato il centrosinistra al governo». Per la verità ce lo portò Prodi nel 1996 e poi nel 2006, ma pazienza: l'orgoglio di partito fa di questi scherzi. Il secondo da salvare è Walter Veltroni (57 anni e sette legislature) perché ha fondato il Partito democratico. La terza è Rosy Bindi (61 anni), «dal momento che sia pure con tutti i suoi difetti è la presidente del Pd». Gli altri sono quelli che hanno troppe legislature alle spalle. Ne ha fatte sette Anna Finocchiaro, sei Franco Marini, sempre sei Anna Serafini grazie a un sponsor importante: il marito Piero Fassino. E vi risparmio il resto perché devo dedicare qualche riga al caso più delicato: Max D'Alema. Baffino d'acciaio è nato nel 1949 e in aprile ha compiuto 63 anni. È stato eletto deputato per il Pci nel 1987, la stessa legislatura della Turco. Ha attraversato tutte le tempeste dell'ultimo ventennio, guidando anche il governo nato dopo la crisi del primo esecutivo di Prodi. Come mai ha resistito tanto? Perché ci sapeva fare, ha molto sale in zucca ed è difeso dal carattere. Un uomo duro, caparbio, orgoglioso di se stesso, pronto a proteggere con le unghie e con i denti il suo primato politico.  Sono tutte qualità. Ma una, il carattere pessimo, presenta qualche rischio. Nel 1994, quando D'Alema divenne segretario del Pds battendo Veltroni, lo misi in guardia: «Stai attento perché hai alle costole un nemico che ti segue ogni minuto e dappertutto, per farti sbagliare». «Chi è questo farabutto?» mi domandò Max. Gli risposi: «L'altro te stesso, il tuo doppio, quello bruscone, acido, che ti obbliga a esporti facendoti dire parole rischiose». In quel tempo, Max non aveva rispetto per nessuno. Non poteva soffrire che a guidare il governo di centrosinistra fossero Prodi e Veltroni. A sentir lui, erano «i flaccidi imbroglioni di Palazzo Chigi». Sul conto del Professore diceva le peggio cose, fingendo di parlare del sottoscritto: «Pansa è un bravo giornalista, ma non capisce un cazzo di politica. In Italia uno soltanto ne capisce meno di lui: Romano Prodi».   Vent'anni dopo, l'altro D'Alema è di nuovo in azione. Max non intende essere messo da parte. Se le sinistre vinceranno aspira a un ruolo importante nel probabile governo Bersani. È possibile che il Pd decida che il limite di tre legislature non valga per D'Alema e lo riporti in Parlamento per l'ottava volta. Ma in questo modo Max apparirà a mezzo mondo il simbolo di una Casta che pretende di durare in eterno. In realtà il caso D'Alema è assai più complicato. Ha provveduto a spiegarcelo il suo ex consigliere o spin doctor, Claudio Velardi, in un'intervista a Fabrizio d'Esposito del Fatto. È un testo da conservare perché, nel disegnare la condizione odierna del suo antico principale, Velardi traccia un ritratto dei big della Casta che non vogliono rassegnarsi al tramonto.  In gioco non c'è soltanto un posto in Parlamento, con i relativi vantaggi economici. L'angoscia di perderlo ha motivazione ben più profonde. Per esempio, la passione morbosa per la politica, una droga che risale all'età verde. Insieme c'è la paura del vuoto. Ma anche una possibile via d'uscita per attenuarla. D'Alema, come Tony Blair e Bill Clinton, potrebbe provarsi a girare il mondo e a fare conferenze «guadagnando soldi a palate». Oppure, aggiunge il Bestiario, dovrebbe scrivere un libro davvero schietto sulla sinistra italiana: ecco un best seller che qualunque editore pagherebbe a peso d'oro. Senza fare così, anche la sera di D'Alema si presenterà triste, gonfia di melanconia e di rancori. Lo stesso vale per tutti gli altri big della Casta. Nessuno di loro sembra accettare una verità che invece conoscono bene. Di fronte ai casi vomitevoli dei ladroni e dei magna magna, l'italiano qualunque si fa una domanda inevitabile. È la seguente: chi ha messo in pista i tanti Batman che si sono ingrassati succhiando i nostri soldi? La risposta è fatale: sono stati i capi dei partiti che non hanno scelto nel modo giusto le seconde e le terze file delle regioni, delle province e dei comuni. Ecco perché anche loro debbono pagare pegno. D'Alema, e molti altri con lui, non hanno mai riflettuto su questo lato della questione? Penso di sì. Però rifletterci non basta. È indispensabile comportarsi di conseguenza e lasciare il posto ad altri. Fare resistenza e cercare di durare ancora del tempo è da suicidi. Sullo sfondo non ci sarà soltanto un nuovo governo di tecnici, ma forse qualcosa di peggio. L'ho già scritto su Libero e lo ripeto: un premier con la tuta mimetica e il mitragliatore è un incubo da scongiurare. di Giampaolo Pansa    

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