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Orfano di Berlusconi, il centrodestra pare un cinepanettone

L'assenza di Silvio crea "mostri" e correnti incontrollabili: nel 2013 o si cambia musica o fuggiranno milioni di elettori

Andrea Tempestini
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di Giampaolo Pansa C'è una breve sequenza televisiva che rivela per intero la crisi del centrodestra italiano e la decadenza senza rimedio del suo leader. Si vede Silvio Berlusconi mentre scende con l'elicottero a Milanello, il centro sportivo del Milan. Vuole accertarsi di persona dei guai rossoneri e degli errori dell'allenatore Allegri. Ma l'occhio impietoso della telecamera mette a nudo una verità ben più grave: a essere travolto dagli eventi è soprattutto il Cavaliere.  Silvio è appena arrivato da un ennesimo soggiorno a Malindi, nel resort di Flavio Briatore. Le cure e la dieta non gli hanno giovato per niente. Il Cav ha il volto di una mummia abbronzata. La pelle sembra di cuoio. Gli occhi sono fessure. La bocca e i denti denunciano una vecchiaia incalzante. L'abbigliamento giovanile, camicia scura aperta sul collo, lo fa sembrare un attempato playboy che si trucchi da ventenne nel tentativo disperato di rimorchiare qualche velina.  Quando inizia a parlare è anche peggio. Dice banalità nervose sul governo Monti, un team capace di fare soltanto disastri. Ricorda che le elezioni siciliane hanno rivelato che il settanta percento degli italiani sono disgustati dai partiti. Compreso il suo? La domanda non gli viene proposta.  Questo autorizza il Cavaliere a offrirci una novità che lo riguarda: sta pensando di candidarsi a premier un'altra volta. Alla faccia dei troppi errori compiuti. E della catastrofe che un anno fa ha travolto il suo ultimo governo. Silvio se la prende sempre con la Germania. Sembra il capo dell'esercito di San Marino pronto a scatenarsi contro le truppe della Nato.  Un partito non può fare nulla per fermare la decadenza balzana del proprio leader. Può sfiduciarlo o invitarlo senza giri di parole ad andarsene in pensione. Ma nessuno è in grado di metterlo alla porta. Soprattutto nel caso che quel leader sia sempre stato collocato sugli altari. Come un santo capace di fare qualsiasi genere di miracoli. Oppure come una specie di padreterno da venerare nei secoli dei secoli.  Il dramma del Pdl, e di riflesso quello del centrodestra, è di non essersi mai liberato del complesso del padre. Certo, a partire dal 1994 Berlusconi ha dato una casa a milioni di elettori moderati che dopo Tangentopoli erano rimasti senza un approdo politico. Ma quel ciclo storico è finito. Restarne prigionieri ha un unico effetto: distruggere il poco che resta di una stagione non priva di errori, ma tutto sommato senza infamia per gli standard della politica italiana.  Se il Pdl non esce da questa trappola della memoria, e non trova una strada nuova, commette un reato non perdonabile dai propri elettori. È il reato di alto tradimento. Tradire significa non sentire il dovere e l'onore di prendersi cura dei milioni di italiani che, dal 1994 sino al 2008, per quattordici lunghi anni hanno votato il centrodestra. E lo hanno più volte portato a Palazzo Chigi.  Tradire è anche abbandonare la gente che ti segue a un futuro obbligato. Quello di chi si trova prigioniero di una sola prospettiva: un governo di centrosinistra, guidato dal Partito democratico di Bersani, dalla Sel di Vendola e dalla Cgil affidata alla rovente Camusso. Neppure i più ottimisti tra i militanti con la felpa rossa avrebbero mai immaginato di essere in corsa da soli, senza competitori moderati.  Oggi il Pdl ha abbandonato i propri elettori. Lo dico io che non ho mai dato il mio voto al blocco di centrodestra e spesso mi sono rifugiato nella scheda bianca. Ma se in marzo volessi votare per il partito fondato da Berlusconi, forse troverei ancora il  simbolo sulla scheda. Ma dietro quell'insegna scoprirei  soltanto un cumulo di macerie.  Che cosa è oggi il Pdl? Sembra la casa dei matti. Dove non comanda nessuno e tutti si fanno la guerra. Il povero Alfano decide di organizzare le primarie, ma altri dirigenti si affrettano a dire che non servono a nulla. Non esiste uno straccio di programma. Se non quello di giudicare un pericolo per l'Italia il governo Monti, che  il Pdl ha sostenuto sino a oggi. Risulta impossibile persino un accordo sulla legge elettorale. Bisogna tenere il Porcellum o no? Una posizione comune non si vede.  L'assenza del padre sta provocando la nascita di un serraglio di correnti e di clan che si muovono da mini-partiti. Il primo che si alza pretende di dirigere l'orchestra. Non era ridotta così neppure la Democrazia cristiana nella fase finale del suo declino. Quando la Balena bianca scomparve, tutti scrivemmo che a ucciderla era stata la corruzione tangentara. In realtà nel 1992, l'anno iniziale di Mani pulite, la Dc non era altro che un guscio vuoto. Oggi anche il Pdl sta diventando così.  Nel vuoto può accadere di tutto. E la tragedia rischia di precipitare nella farsa. Stiamo assistendo a un «cinepanettone» politico che presenta in successione un figurante dopo l'altro. Le Amazzoni azzurre. I cento di Scaiola. I formattori che scimmiottano i rottamatori di Renzi. Gli innovatori più bizzarri. Qui si va dal miliardario Gianpiero Samorì al finanziere Alessandro Proto, passando per Ernesto Preatoni, l'uomo chiamato mister Sharm el Sheik. Persino il magico Briatore si è offerto come consigliere a un redivivo Berlusconi. La politica spettacolo sta generando una pletora di mostricciatoli. Quando riescono a ottenere un passaggio televisivo su una rete importante o un'intervista su un quotidiano nazionale, si montano la testa. Al punto di dichiarare: ho lo stesso sorriso che aveva Silvio un tempo, donne d'Italia votatemi! In un colloquio con Libero, l'ex ministro Altero Matteoli ha riconosciuto che il Pdl «è in difficoltà e ha un deficit di autorevolezza». Capisco che non sia elegante diffamare la parrocchia che ti ha fatto vescovo. Ma è altrettanto sbagliato comportarsi come un medico che di un paziente sul punto di morire dica: ha soltanto un tantino di febbre.  Uno dei big della Prima Repubblica, Giulio Andreotti, ci aveva offerto un motto tra il cinico e il rassegnato: «Meglio tirare a campare che tirare le cuoia». Ma questa filosofia non funziona per un partito come il Pdl, un soggetto politico con un piede nella fossa. E non sa ritrarsi dal baratro che potrebbe inghiottirlo.  Il 2013 sarà l'anno cruciale per gli orfani di Berlusconi. Anche loro, a somiglianza di tutti gli altri partiti, temono il boom dei Cinque stelle di Beppe Grillo. Ma non è di lui che debbono avere paura. Bensì di se stessi e della tragica farsa che stanno recitando.   Se non cambiano musica e copione, i loro elettori non gli perdoneranno nulla. Allora accadrà quello che nessuno immagina. Quando i dirigenti del Pdl metteranno la testa fuori dalle loro stanze ben protette, verranno accolti non con i forconi, ma con un concerto di pernacchie. La sorte peggiore per un partito che aveva promesso di fare la rivoluzione liberale e cambiare l'Italia.

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