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Terzi: "Monti ha tradito i nostri marò"

Lucia Esposito
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«Sì, lo confermo: nel mese di luglio il presidente della Croce Rossa Internazionale ha offerto al governo italiano i buoni uffici dell'organizzazione, e non ha mai avuto risposta. È profondamente sbagliato immaginare la risoluzione di una vicenda seria e grave di politica estera attraverso la scorciatoia di una malattia o di un malore pur seri, ma se quell'offerta fosse stata presa in considerazione come doveroso, oggi riportare a casa i marò sarebbe più semplice. Sottolineo anche che nel contenzioso su Finmeccanica, nonostante la contrarietà degli indiani, un arbitro internazionale è stato nominato per decisione del presidente della Camera di Commercio internazionale: a dimostrazione che, se si tratta di affari, decisioni anche conflittuali si prendono in sedi internazionali. Ma per due militari che hanno compiuto il proprio dovere la debolezza è micidiale, le chiacchiere nauseanti. Sono passati 523 giorni e tre governi: è una macchia indelebile sulla nostra dignità di nazione». Se c'è uno che la storia dolorosa di Massimiliano Latorre e Salvatore Girone la conosce nelle pieghe, nelle miserie, nei retroscena, è Giulio Terzi di Sant'Agata, ministro degli Esteri del governo Monti fino al giorno di clamorose e pubbliche dimissioni in risposta all'imbroglio della riconsegna all'India dei due marò. Terzi è una figura rara di public servant , una carriera brillante culminata come ambasciatore in posti chiave come Israele, le Nazioni Unite, Washington, prima della nomina alla Farnesina. Per un anno si è beccato con stile accuse e insulti, anche i miei, perché lavorava silenziosamente a un arbitrato internazionale che consentisse di non far rientrare i due marò in permesso in Italia senza violare alcun accordo né commettere scorrettezze. Gli era riuscito, poi ha capito quale gioco sporco si stesse giocando. E ha deciso per il beau geste, la denuncia pubblica. Trasformandosi in testimone scomodo per chiunque si provi a ciurlare nel manico, a fare annunci muscolari a cui seguono solo inerzia e complicità. «Appena ho avuto notizia di questo incidente, avvenuto fuori dalle acque territoriali indiane, e della richiesta della Guardia Costiera indiana di far invertire la rotta alla Enrica Lexie per indirizzarla verso il porto di Kochi, ho subito detto che la nave non doveva lasciare le acque internazionali. Dovevamo tenere la nostra nave e i nostri militari in sicurezza: in acque internazionali la giurisdizione italiana sulla propria nave di bandiera era incontestabile. La risposta che mi arrivò mi sorprese e irritò: mi riferirono che l'incidente si era verificato diverse ore prima, e che la nave aveva già invertito la rotta, eseguendo ordini e indicazioni del ministero della Difesa: perciò, nel momento in cui mi era stata fatta la prima comunicazione, si trovava già circondata da unità della Guardia Costiera indiana, e molto vicino al porto di Kochi. Chiesi subito copia di tutte le comunicazioni tra Unità di Crisi della Farnesina e Autorità militari, e dovetti constatare con estremo disappunto che il ministero della Difesa aveva informato l'Unità di Crisi della Farnesina soltanto parecchie ore dopo». Veniamo ai giorni dello scandalo. Lei annunciò la decisione di trattenere definitivamente i marò che per la seconda volta erano in permesso in Italia, ma dopo qualche giorno furono costretti a ripartire per l'India, e lei si dimise. Che cosa accadde? «Il primo ritorno dei nostri sottoufficiali in Italia, il “congedo natalizio” a fine 2012, lo avevo ottenuto personalmente a seguito di una conversazione con il mio omologo indiano Salman Khurshid, come gesto simbolico di distensione dell'India nei confronti dell'Italia per il prosieguo di questa vicenda. Lo ottenemmo sulla base di un affidavit, che poi venne replicato anche per la licenza elettorale del febbraio-marzo successivo. Nell'affidavit avevamo inserito una clausola importante: il governo italiano s'impegnava, tramite l'ambasciatore a Nuova Delhi, a fare “tutto il possibile” per far tornare i marò in India a fine licenza. Ciò significava che se la magistratura italiana, presso la quale erano aperti da inizio novembre 2012 due procedimenti penali per l'incidente che veniva addebitato a Latorre e Girone (uno presso la Procura militare e uno presso quella ordinaria), avesse trattenuto il passaporto ed emanato misure cautelari, impedendo che i due ripartissero dall'Italia per tutto il periodo delle indagini e del processo, nessuno avrebbe potuto dire nulla». «Al primo rientro dei due marò chiesi al presidente del Consiglio Monti di sollecitare la Procura di Roma, come avvenuto in altri casi, ad esempio quelli di Lozano e Baraldini. Quando Latorre e Girone tornarono per votare, in febbraio, vi era peraltro stato un nuovo importante sviluppo. Il 18 gennaio la Corte Suprema indiana aveva emanato una sentenza sul ricorso inoltrato dai legali di Latorre e Girone: per la Corte Suprema l'incidente nel quale era incorsa la Lexie configurava un'azione antipirateria avvenuta al di fuori delle acque territoriali indiane, e quindi era coperta dall'articolo 100 del Trattato UNCLOS (la Convenzione Onu sul Diritto del mare). Poteva allora entrare in campo l'arbitrato, previsto quando le consultazioni bilaterali non hanno dato esito. L'arbitrato può essere di due tipi: consensuale se i due Paesi nominano di comune accordo i loro arbitri; obbligatorio se una delle due parti non accetta l'arbitrato. La nazione che accetta l'arbitrato, a discapito di chi lo rifiuta, può chiedere la nomina d'ufficio e procedere comunque. In quel febbraio del 2013, dunque, dopo consultazioni interministeriali approfondite, si decise di chiedere formalmente all'India l'attivazione di un arbitrato consensuale. L'India rispose che non voleva saperne, reiterò questa risposta negativa ripetutamente. A quel punto il governo italiano annunciò di voler trattenere in Italia i marò fino a che l'arbitrato obbligatorio, che parallelamente stavamo attivando, non avesse stabilito quale Paese avesse giurisdizione. Tutti eravamo d'accordo, facciamo un comunicato del governo in due occasioni diverse, a distanza di una settimana, e lo inviamo a 150 sedi su tutta la rete diplomatica. I toni indiani ovviamente montano, comprese le dichiarazioni di Sonia Gandhi, ma era scontato». Non mi pare che ci fossero dei pericoli, la vicenda veniva finalmente riportata sui binari del diritto internazionale. Certo, si apriva formalmente una controversia fra due grandi Paesi, ma c'erano tutti gli estremi per gestirla in modo civile. Invece... «Invece il 21 marzo parte una convocazione del presidente del Consiglio per una riunione riservata dei ministri più interessati alla vicenda. Il giorno precedente alla convocazione avevo ricevuto un paio di telefonate nelle quali mi si allertava che un collega di governo si stava agitando freneticamente perché temeva per gli interessi economici in India, e riteneva che i due marò dovessero essere rispediti indietro immediatamente. Mi preparai a sostenere con il dovuto vigore la validità di una linea che era stata sino a quel punto fortemente condivisa soprattutto dai ministri della Difesa e della Giustizia, oltre che dal premier. Ma, con profonda tristezza, mi resi conto che ero rimasto solo. Nonostante la mia netta opposizione ci si rivide la mattinata successiva, e lì la decisione era stata presa. Il giorno dopo, il ministro della Difesa Di Paola e il sottosegretario de Mistura andarono a convincere Latorre e Girone affinché ripartissero. Fornirono garanzie che tutto si sarebbe risolto in poche settimane: sappiamo che non ce n'erano. Ecco perché decisi di dare le dimissioni. Provai un grande dolore nel constatare di dover rappresentare nel mondo un Paese che si comportava dando così scarso valore alla propria sovranità e interesse nazionale». «Quel politico che si agitava era Corrado Passera, ma evidentemente Monti, Di Paola e gli altri erano d'accordo. A me risulta che Di Paola e de Mistura, oltre che dare garanzie, minacciarono pesantemente i due marò. Non solo non hanno pagato, hanno avuto vistose ricompense. È passato un anno e mezzo da quei momenti, prima c'è stato un inutile governo Letta poi un bellicoso Renzi, che appena insediato chiamò i marò e promise azioni efficaci. Che cosa è stato fatto?». Non è stato fatto assolutamente nulla. Maria Giovanna Maglie 

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