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Mps, Pansa: "Siena non sa più cos'è la democrazia"

E' un fortino chiuso che non conosce l'alternanza al potere. La regola è una: ciò che va bene al Pd, va bene alla città

Giulio Bucchi
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    di Giampaolo Pansa Ho abitato a Siena dal 2003 al 2005 e adesso vedo accadere il disastro che alcuni amici senesi avevano previsto per tempo. Devo premettere che vivere a Siena mi è piaciuto molto. Sono nato e cresciuto in una provincia assai diversa da quella toscana, eppure ho trovato nella città del Palio tante analogie con la mia patria piemontese. Questo mi ha spinto a conoscere meglio il posto dove avevo scelto di vivere. E oggi mi accorgo di aver imparato qualche verità che a mio parere spiega il dramma del Monte dei Paschi.  Prima di tutto, Siena è una città troppo piccola per far fronte ai grandi centri di potere che contiene. Gli abitanti sono poco più di cinquantamila, un numero esiguo rispetto alla presenza di una serie di istituzioni che dovrebbero poter contare su un contesto assai più vasto. Dentro le mura trovi la terza banca italiana, la Fondazione che la possiede, il Policlinico, l'Università, l'Università per stranieri, il complesso delle Contrade, il Palio, la festa italiana più nota al mondo, la squadra di calcio e di basket. E infine un immenso patrimonio d'arte, simboleggiato dal Palazzo pubblico e dal Duomo.   Questa straordinaria ricchezza economica e culturale viene gestita da una classe dirigente esigua, quella che può esprimere una città delle dimensioni di Siena, con il solo innesto di alcuni comuni della provincia. Non è colpa dei senesi, naturalmente, ma di secoli di storia. Tuttavia questo squilibrio mai attenuato colpisce un immigrato come in fondo mi sono sentito anch'io.   Lo dice il bubbone del Monte. Un colossale istituto di credito gestito soltanto da senesi, i soliti noti, messi in sella dalla sinistra con l'aiuto del sindacato bancari della Cgil. Il vertice della banca è sempre stato roba loro. Sino a quando il rischio di un crac ha reso indispensabile ricorrere a un banchiere esterno come Alessandro Profumo, uno straniero nato a Genova e cresciuto a Milano.    Una città piccola e anche chiusa in se stessa. Può sembrare paradossale per un territorio che attrae gente di tutto il mondo. Ma quando ho iniziato a vivere a Siena l'unico contatto con le istituzioni cittadine mi è stato offerto dai capi della contrada dove era situata la casa che abitavo. Mi hanno scritto una lettera che all'incirca diceva: abbiamo saputo del suo “insediamento” qui e ci congratuliamo.  Poi indirettamente mi chiedevano di contribuire al finanziamento dell'attività contradaiola. Ho risposto che non intendevo diventare un senese a pieno titolo e tutto è finito lì.  Dopo quell'approccio senza esito nessuno mi ha più cercato. È accaduto così anche ad altri immigrati eccellenti, uso l'aggettivo senza boria. Sotto questo aspetto Siena si è rivelata un rifugio felice. Il maso chiuso non si apriva per farti entrare. Ma in compenso ti lasciava in pace.  Alla sola condizione che non pretendessi di impicciarmi dei grandi problemi della città, un affare riservato soltanto ai senesi. E neppure delle piccole questioni. Se protestavo per il troppo rumore di notte o per un'auto parcheggiata in divieto di sosta, incappavo in qualcuno che mi replicava: «Stai zitto, terrone!», oppure: «Stai zitto africano, ti manteniamo noi!».  Un altro lato debole di Siena è sempre stato il dominio di un solo partito: il Pci e i suoi eredi politici. La città è una delle più rosse in Italia. Lo è diventata subito dopo la seconda guerra mondiale. Caduto il fascismo, nelle campagne senesi è iniziata una lotta di classe molto dura tra i grandi agrari e i poveri che faticavano nei loro poderi: i mezzadri e i braccianti.    Questa contesa diventata cattiva ha causato il trasferimento in città di un proletariato agricolo che ha saputo inurbarsi con intelligente tenacia. Molti sono diventati artigiani, negozianti, ristoratori. Hanno contribuito alla ricchezza di Siena, migliorando anche il loro tenore di vita. Ma la collocazione politica non è mutata. Erano di sinistra e sono rimasti a sinistra.  Votavano per il Pci e hanno continuato a farlo, senza rifiutare le successive versioni del comunismo italiano, il Pds, i Ds, il Partito democratico. Ancora oggi Siena è una città che ha un unico colore politico, monocromatica direbbe un sociologo. Dove vige una sola norma: quello che va bene al Pd, deve andare bene anche ai senesi. Non è mai esistita un'alternativa alla sinistra. Negli anni trascorsi in una casa sotto la Torre del Mangia non ho mai incontrato un esponente democristiano, un liberale, un ex missino.  Mi sono imbattuto una sola volta in un consigliere comunale che mi ha detto di appartenere ad Alleanza nazionale. Era un signore molto cortese, ma con l'aria per niente combattiva. Si è affrettato subito a spiegarmi che il centrodestra a Siena era impotente, anzi non contava nulla. Poi mi ha offerto un'immagine stupefacente: «Qui comanda ancora un signore con i baffoni, Giuseppe Stalin. Dopo la morte a Mosca, il suo spirito si è trasferito in piazza del Campo».  Di fatto ancora oggi a Siena non esiste una democrazia completa. A decidere quel che conta davvero è  un solo partito, il Pd guidato da Pier Luigi Bersani e diretto in loco da oligarchi volitivi, ben decisi a non lasciare spazio a nessun altro. Qualcuno si è mai ribellato davvero a questo potere senza concorrenti? Nei miei anni senesi non ho conosciuto nessuno che avesse voglia di interpretare questo scomodo ruolo.  Siena ha visto un solo ribelle. È  un giovane intellettuale, Raffaele Ascheri. Poco dopo la metà del Duemila, ha pubblicato un libro che ha dato molto fastidio ai padroni politici della città: “La Casta di Siena. Una radiografia del potere nel territorio senese”. L'edizione che possiedo è del gennaio 2008 e sulla copertina c'è un distico che dice: “Il caso editoriale dell'anno a Siena”.  Non si tratta di una vanteria. Il libro di Ascheri è stato un best seller. Non sarebbe mai accaduto se le storie e i tanti personaggi svelati da questa requisitoria avvincente, e molto documentata, riguardassero un'altra città.  Un fantasma e un mistero agitano le notti di Siena. Il fantasma è quello del possibile crac del Monte dei Paschi. Il mistero nasconde il percorso che ha portato al disastro la terza banca italiana. Il frontespizio del libro di Ascheri elenca una serie di big, l'ultimo è Giuseppe Mussari, che oggi stanno su tutti i giornali. E la domanda inevitabile è quanti di loro riusciranno a rimanere in sella. Oppure diventeranno soltanto personaggi senza futuro, da narrare in altri libri sul passato della città.  Nella Siena che ho conosciuto l'emergere di nuovi poteri non è mai stato possibile. Anche l'arrivo di Profumo e dell'amministratore delegato Fabrizio Viola ha incontrato molti ostacoli. Era vissuto come un trauma, un'insopportabile violenza alla senesità del Monte. Il cambio pare sia stato imposto dalla Banca d'Italia. Non so dire se questo sia vero. Ma è di certo vero che siamo soltanto all'inizio di una storia che può avere esiti terribili.  Una conseguenza l'abbiamo già sotto gli occhi: la corsa di Bersani verso Palazzo Chigi si è fatta più difficile e incontrerà molti serpenti sotto le foglie, per usare una vecchia metafora di Bettino Craxi. Tanto che adesso il segretario del Pd dovrà adattarsi a comiziare in qualche grande città italiana con il suo avversario alle primarie, Matteo Renzi.   Il sindaco di Firenze aveva battuto Bersani a Siena e in molti centri della provincia: 54,2 per cento contro il 36,9. Forse il giovane Renzi dovrebbe fare anche adesso un comizio in piazza del Campo, a un passo dal Monte dei Paschi. Sarebbe interessante conoscere come la pensa sui fantasmi e i misteri di un paradiso che rischia di diventare un inferno.       

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