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Maurizio Belpietro: "Ci toccherà bere l'amaro Giuliano"

Matteo Legnani
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Sarà Amato, anche se non è proprio amatissimo. Lo so, fare le previsioni è sempre azzardato perché si rischia di sbagliarle, ma dopo ciò che è successo ieri al Senato mi sembra che l'attuale giudice costituzionale Giuliano Amato abbia la strada spianata per il Quirinale e nessun altro candidato sia in grado di competere con lui. Nessuno meglio di lui, che è stato ex consigliere di Craxi, ex capo del governo, ex ministro ed ex presidente di tante cose, Treccani compresa, può essere interprete dell'intesa fra Matteo Renzi e Silvio Berlusconi. Nessuno più del dottor Sottile ha l'abilità di tenere insieme gli opposti e di farsene garante. Dunque rassegniamoci, perché sul Colle il nuovo che avanza ha l'età di 77 anni e un passato che non passa. Su di lui pesa un'ingombrante eredità, che non è dovuta alla vicinanza con l'ex leader socialista di cui si è recentemente celebrato il quindicesimo della scomparsa. E nemmeno sono i giudizi che l'esiliato speciale vergò prima di morire e la cui figlia, Stefania, ha riesumato pochi mesi fa, ripubblicandoli in un libro dato alle stampe con Mondadori. No, non sono le accuse di essere stato a conoscenza del sistema di finanziamento illecito che spazzò via il Psi né le critiche di essere un opportunista, uno cioè che dal Garofano transitò senza colpo ferire con quelli che, impugnando Falce e martello (ma anche codice e manette), al Garofano tolsero ogni petalo fino a estirparlo dalla memoria degli italiani. Il passato che non passa è la manovra di cui Giuliano Amato si rese responsabile nel 1992, in piena era di tangentopoli e di tormento della lira, quando per rimettere in sesto i conti dell'Italia colpita dalla speculazione finanziaria (corsi e ricorsi storici) l'allora presidente del Consiglio scelto da Oscar Luigi Scalfaro al posto di Bettino decise di introdurre nottetempo una tassa del sei per mille su tutti i conti correnti. Un'imposta piatta, uguale per tutti, non progressiva come l'Irpef. Così dalla pensionata che aveva appena incassato la pensione, ai fidanzatini in procinto di comprar casa e che dunque avevano accumulato un po' di giacenza in vista di staccar l'assegno, e perfino chi si era visto accreditare un finanziamento appena erogato e in attesa di essere investito, insomma tutti gli italiani con un deposito in banca o alla posta, si videro legalmente espropriati del sei per mille. Uno choc, perché è vero che da sempre quando era a caccia di quattrini lo Stato si rifaceva sul contribuente, ma di solito le imposte erano progressive e comunque gravano sul reddito. In quel caso no: per la prima volta i contribuenti scoprirono che per necessità e senza guardare in faccia a nessuno il governo poteva introdurre dalla sera alla mattina una patrimoniale. Certo, a non cancellare dalla memoria degli italiani l'increscioso episodio, poi, hanno contribuito le molte poltrone che l'Amaro Giuliano ha via via occupato, ricavandone in una carriera ultra ventennale non solo ricchi emolumenti, ma anche congrui vitalizi. Una delle polemiche più in voga dai tempi delle accuse alla Casta si rifà al numero di pensioni del giudice costituzionale. Una come professore, una come parlamentare, una come presidente dell'Antitrust e forse ci è scappata qualche altra mancetta. All'inizio il Dottor Sottile lasciava perdere, evitando di replicare, forse memore del motto andreottiano che una smentita è una notizia data due volte o forse perché piuttosto di dissipare le critiche preferiva tenersi i vitalizi. Sta di fatto che negli ultimi tempi ha cambiato strategia: prima ha iniziato a minacciare querele, poi ha deciso con riservatezza di rinunciare a qualche assegno. Probabile che già sentisse aria di Quirinale e che dunque si preparasse ad avere i requisiti di un pacificatore nazionale, ovvero di ponte tra il mondo berlusconiano e quello renziano. Lavoro difficile, ovviamente, anche perché non più tardi di quattro anni fa, essendo momentaneamente sprovvisto di incarico e dunque dotato di un certo tempo libero, ad Amato venne l'idea di concedere un'intervista al Corriere della Sera con cui suggerire un prelievo forzoso sul reddito degli italiani benestanti. Un'operazione di 15 mila euro l'anno su ogni contribuente non ridotto alla fame che, secondo l'ex presidente del Consiglio, avrebbe consentito di ridurre drasticamente il debito pubblico (ma anche la busta paga delle famiglie). Una reiterazione insomma, con cui l'ex presidente del Consiglio dimostrava di non essere affatto pentito di aver svuotato il salvadanaio di milioni di italiani, cosa che ha contribuito a non renderlo molto popolare. Eppure, nonostante la pessima fama fra gli elettori, Amato ha tutte le carte in regola per fare il gran salto. Piace a Napolitano, che pur essendo un ex prima di lasciare si è dato da fare per occupare la poltrona con qualcuno a lui gradito. Piace a Renzi, perché pensa che non gli faccia ombra e che sia meno ingombrante di Prodi. Piace a Berlusconi, che lo conosce fino dai tempi di Craxi. Piace perfino a D'Alema, che infatti lo nominò ministro e poi lo indicò come suo successore quando fu costretto a traslocare da Palazzo Chigi causa sconfitta alla Regionali. Amato una volta sul Colle celebrerebbe il matrimonio fra Renzi e Berlusconi, sancendo ufficialmente quello che è già sancito dai fatti ovvero che il Pd è il partito di una sinistra scolorita che sta più al centro che a sinistra, pronto dunque ad allearsi con un partito di centrodestra dove la destra non c'è più. Altro che bipartitismo: qui si va verso il Partito unico. Che per un tipo Sottile come Giuliano Amato è come il formaggio per un topo. di Maurizio Belpietro

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