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Toto-Colle, Perna: Anna Finocchiaro, la candidata diversivo sempre trombata per i suoi guai

Giulio Bucchi
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È forte la tentazione di augurarsi per il Quirinale la statuaria Anna Finocchiaro, la cui beltà mediterranea, unita alle forme piene e alla voce profonda, ci darebbe lassù, anziché il solito babbione, una novella Cerere, divinità dei campi e delle nozze feconde. La ben tornita Finocchiaro, ex Pci di ferro (fu contrarissima al cambio del nome in Pds), ha tutte le carte in regola per salire sul Colle, a cominciare dall'età che più mediana non si può: sessant'anni il prossimo marzo. Un'età, nel contempo saggia e fresca, non insidiata dal decremento neuronale che rischiano altri candidati quasi ottuagenari. Finocchiaro al Quirinale: è la volta buona? / Sondaggio È già la terza volta che si fa il nome per il Colle dell'attuale presidente della commissione Affari costituzionali del Senato. La prima fu nel 2006, ai tempi del governo Prodi II. In quell'aprile, pareva che la signora dovesse andare al Viminale. La spuntò invece Giuliano Amato. Lei rimase male perché era pronta a fare di più che non il capogruppo dell'Ulivo a Palazzo Madama, suo ruolo di allora. In fondo, mancava dal governo da dieci anni. Era stata infatti ministro delle Pari opportunità nel Prodi I (1996), poi più nulla. Dopo la delusione, Finocchiaro attese il risarcimento. In maggio, si doveva sostituire sul Colle l'uscente Ciampi. Alla vigilia, Prodi, si abbandonò a una delle sue bofonchiate a mezza bocca: «Ci vuole un segno di novità. Magari una donna». Frase buttata lì, tanto per dire una cosa trendy: largo ai giovani, alle donne, ecc. Anna, però, si convinse che avesse alluso a lei. «Questa è la volta buona», disse a sé stessa e si preparò spiritualmente. Fu invece eletto Giorgio Napolitano. Anna, indispettita, dichiarò al Corriere della Sera: «Un uomo col mio curriculum l'avrebbero già nominato presidente della Repubblica». Un'esagerazione perché, oltre a essere in Parlamento dal 1987 e avere guidato un ministero senza portafoglio (Pari opportunità), non aveva altro nel carniere. Ma qui gioca il vittimismo femminista della senatrice. Ne riparleremo. Concludo con le sue candidature quirinalizie che, a guardare bene, vere candidature non sono. Il nome giusto è: diversivi crudelmente lanciati per non bruciare il vero predestinato, a costo di ferire le trepide aspettative della nostra Anna. Fu così anche nel 2013 quando, scaduto Napolitano, l'allora segretario Pd, Pierluigi Bersani, sbandierò il nome di Finocchiaro come cosa fatta. Al dunque, candidò invece Marini, poi Prodi. I due però furono bocciati e al Quirinale rimase Re Giorgio. Anna, negletta senza neanche salire sul ring, dovette di nuovo curare l'orgoglio ferito. In questi giorni, è ancora Bersani che ricicla il suo nome. Ma se le chance di lei dipendessero da lui, sarebbero nulle. Deve solo sperare che Matteo Renzi tenga nella giusta considerazione il fatto che da vetero comunista, d'alemiana di ferro, bersaniana per disciplina di partito, Anna adesso lo appoggi come ha fatto con la legge che svilisce il Senato. Un sostegno senza plateali sbracciamenti ma discreto, come si conviene alla gran dama dei Palazzi. Finocchiaro è infatti la decana del Parlamento. Inamovibile da ben otto legislature - cinque alla Camera, tre al Senato - seconda solo a Pier Ferdinando Casini. Anche calibri come Max D'Alema e Walter Veltroni si sono dovuti piegare, sia pure in ritardo, allo Statuto del Pd che limita a tre le legislature degli eletti. I contravventori ci sono - Rosy Bindi, per esempio, ne ha sei - ma nessuno è più refrattario di Anna a piegarsi alla norma. Bersani, alla vigilia delle Politiche 2013, aveva cercato di metterla statutariamente in regola buttandola fuori dal Parlamento per farla però approdare al Csm. Il trasloco a Palazzo dei Normani le era congeniale. Infatti, la siciliana Finocchiaro è in origine magistrato come il padre e per sette anni, prima di incastonarsi in Parlamento, fu pretore e poi pm a Catania, sua città elettiva. Ma quando la manovra Csm era in dirittura, i giudici di Catania, suoi ex colleghi, le combinarono lo scherzo di rinviarle a giudizio il marito, Melchiorre Fidelbo. Costui, valente ginecologo, è il più tenero consorte che ci sia. Già nel lontano 1987, la incoraggiò a entrare in Parlamento nonostante fosse incinta. Poi, in sua assenza, ha badato alle loro due bambine. Quali le colpe di Melchiorre? Essersi aggiudicato alcuni anni fa con la sua Solsamb srl un appalto di 1,7 milioni per informatizzare il presidio sanitario di Giarre. Secondo i pm, avrebbe fatto pressioni per ottenere senza gara - contrariamente alla legge - la commessa. Le toghe non hanno invece contestato alla senatrice di averci messo lo zampino. Ma voci sono corse. Per questo inciampo, Annuzza ha perso il treno per il Csm, mantenendo in cambio il seggio senatorio. Oggi, per la stessa faccenda ancora sub judicio, c'è chi vorrebbe impedirle di partecipare alla lizza per il Quirinale. Tuttavia, se si può capire che la storia di Melchiorre abbia il suo peso, è grottesco che si continui a rinfacciarle la faccenda dell'Ikea. Nel maggio del 2012, il settimanale Chi uscì con la foto di Annuzza che faceva compere nel bazar svedese con i tre uomini della scorta, uno dei quali trasportava il carrello della spesa. Apriti cielo. La senatrice fu accusata di avere offeso i militari utilizzandoli come inservienti. In tutto il globo, le scorte fanno cose abominevoli - come arrancare dietro a presidenti e primi ministri maniaci dello jogging - senza che nessuno fiati. Qui, invece, per un poliziotto che si comporta da gentiluomo di fronte a una signora, si scatena un putiferio? È il rovesciamento dei valori: scandalo sarebbe stato semmai che Annuzza, con tre palestrati al seguito, trascinasse da sé il carrello.  Sono altre le osservazioni da fare sul conto di Finocchiaro. È carrierista ma cela le mire col paravento del femminismo. Se si candida a qualcosa - ed è sempre lì che ne studia una - dice che lo fa per «una rivendicazione di genere». Ossia, che non cerca gli onori per sé ma per affermare il diritto della donna di tagliare i traguardi che la lobby maschile le preclude. «Il fenomeno - ha sentenziato - si chiama il soffitto di cristallo: le donne vedono le cariche più alte, ma un soffitto di cristallo impedisce loro di salire». La verità, invece, è che non ha mai preso iniziative indipendenti e si è sempre appoggiata ai vituperati uomini. Specie D'Alema, che è stato il suo nume tutelare. Fu lui nel 2007 a spingerla a candidarsi contro Veltroni per la segreteria del nascente Pd. Lei ci credette con tutta l'anima e discettò, a destra e a manca, di un partito nuovo, «con un leader anagraficamente fresco. E possibilmente di sesso femminile». Era il suo ritratto che faceva circolare. Un giorno però, D'Alema si accordò in segreto con Veltroni dando a lui lo scettro del partito. Anna restò di peste ma chinò muta la testa, come la classica comunista prona al capo. O, se volete, come la solita donna ligia all'uomo. Questo difetto di autonomia è il suo vero ostacolo al mestiere solitario di capo dello Stato. di Giancarlo Perna

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