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Silvio punito, la grande finanza no

Lucia Esposito
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di Franco Bechis È il cosiddetto sistema estero del gruppo Fininvest in origine e di quello Mediaset dal 1996 in poi il motivo della condanna di Silvio Berlusconi per frode fiscale. In sintesi l'accusa è quella di avere costituito società ad hoc in Paesi a fiscalità vantaggiosa (prima Lussemburgo e Olanda, poi Malta) al fine di sottrarre al fisco profitti che andavano direttamente o indirettamente alla famiglia Berlusconi. Che questo sia provato o meno nel processo, è proprio l'oggetto del braccio di ferro fra i legali del Cavaliere e i giudici che l'hanno condannato. Nel testo della sentenza di primo grado che ora è stata confermata in appello, è assai difficile scorgere una prova regina e molti indizi come capita nei processi vengono interpretati dai giudici. In qualche caso anche compiendo palesi errori, come la confusione fra Mediaset srl (pre-quotazione, interamente controllata dai Berlusconi) e Mediaset spa (post quotazione, con piccoli e grandi azionisti estranei alla famiglia). Ma bisognerà attendere il testo integrale della sentenza d'appello per capire se solo il dispositivo finale o tutta la sintesi del secondo processo sia fotocopia del primo grado. Nell'attesa una certezza: la somma che a titolo di provvisionale il tribunale conferma come risarcimento alla Agenzia delle Entrate è di 10 milioni di euro, interessi compresi. Una cifra che è - secondo i casi - da trenta a dieci volte inferiore a quella pagata da gran parte dei gruppi imprenditoriali e finanziari italiani nei patteggiamenti con l'Agenzia delle Entrate nell'ultimo biennio. Dopo la sentenza della Cassazione sul cosiddetto abuso di diritto, di fatto sono state considerate frodi fiscali tutte le operazioni fatte generalmente all'estero al fine di risparmiare in tasse. Fino a quella sentenza non è mai stato considerato illegale cercare modi per alleggerire la pressione fiscale su imprese e società finanziarie. Ora lo è, e la materia viene applicata anche in modo retroattivo. Così - tanto per fare un esempio - alla fine del 2011 hanno patteggiato con l'Agenzia delle Entrate la Bosch per 300 milioni di euro, il Monte dei Paschi di Siena per 260 milioni di euro, Banca Intesa per 250 milioni di euro, Banca popolare di Milano per 186 milioni di euro, Unicredit per 99 milioni di euro. Nonostante cifre così consistenti, nessuno dei patteggiamenti fiscali (ce ne sono stati decine di altri) ha prodotto l'apertura di una azione penale, che era possibilissima e secondo il codice italiano perfino obbligatoria. Non si può patteggiare con il fisco se l'azione penale è già promossa, ma di fronte a cifre di questo tipo è assai singolare che non sia avvenuto il contrario. Proprio negli anni Novanta, quando viene messo sotto accusa il sistema estero di Fininvest-Mediaset, tutti i principali gruppi imprenditoriali e finanziari avevano non solo un sistema identico, ma spesso addirittura holding e subholding in paesi a fiscalità vantaggiosa. Era così per il gruppo Fiat- Ifil (con una holding lussemburghese), così per il gruppo Cir-Olivetti (anche lì con holding lussemburghese), per il gruppo Ferruzzi-Montedison. E ancora anni dopo pesavano le holding lussemburghesi ed olandesi di Diego Della Valle-gruppo Tod's (una è stata poi rimpatriata), quelle del piccolo gruppo di Luca Cordero di Montezemolo, quelle di Luxottica che qualche guaio penale hanno provocato anche a Leonardo Del Vecchio. Tutte holding e finanziarie che – esattamente come nel supposto caso di Berlusconi - avevano il solo scopo di abbassare la pressione fiscale che in Italia c'era  proprio sui gruppi imprenditoriali. Una riduzione delle tasse che quasi sempre andava a solo vantaggio degli azionisti di maggioranza. In altri casi questo tipo di organizzazione (è successo ad esempio in Fiat e in Ferruzzi) serviva a creare fondi neri con cui pagare stipendi extra ai propri manager o tangenti.  Basta citare le parole di Francesco Greco, pm di Milano, sugli stessi identici anni Novanta su cui è fondato il processo a Berlusconi : «Tutti i gruppi realizzano politiche di cosiddetta ottimizzazione fiscale e portano fuori dalla holding italiana delle risorse che successivamente trasferiscono ai margini dei confini di consolidamento (ad esempio verso le società off shore panamensi o delle Bvi) dove non solo realizzano indubbi vantaggi fiscali ma possono gestire più liberamente tali risorse stante la totale mancanza di controlli su questo tipo di società (…) Spesso all'estero sono state create delle vere e proprie tesorerie riservate, alimentate con le più varie operazioni finanziarie, gestire da fiduciari ovvero dagli stessi dirigenti amministrativi e contabili della holding».  Per qualcuno l'inchiesta penale scattò, per altri non si sa perché, no. Fu condannato per questo l'amministratore delegato di Fiat, Cesare Romiti, con l'accusa di frode fiscale per alcune decine di milioni di euro sottratti al fisco. Si prese un anno e nessuna pena accessoria: avrebbe potuto continuare a fare il manager. Due anni dopo fu revocata anche quella pena. Fu comunque fra i pochi a subire l'azione penale. Giusto perché in Italia la legge è uguale per tutti.

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