Roberto Formigoni: "Temevo di finire appeso come Mussolini, mi ritrovo rimpianto e 15 volte assolto"
«Hanno cercato in tutti i modi di distruggermi perché vincevo, avevo potere, governavo bene. In più sono cattolico, addirittura ciellino e quindi ci godevano a prendermi di mira. Ma a 70 anni sono ancora qui, non sarà così facile liberarsi di me». Un po' come Berlusconi, tenta la risurrezione? «È stato un periodo durissimo. In effetti le vicende sono analoghe, entrambi siamo stati colpiti quando eravamo al massimo e abbiamo subìto un'ingiustizia forte. È aberrante che Silvio non possa candidarsi. Quanto a me, ho una condanna pesante in primo grado, sei anni per corruzione, ma sarò assolto. Lo sono già stato 14 volte. Anzi 15. Giusto venerdì sono stato scagionato, perché il fatto non sussiste, dall'accusa mossami nel 2012 che mi aveva procurato tonnellate di fango: per i pm avrei favorito la Compagnia delle Opere e un imprenditore privato remunerato con il permesso di costruire una discarica in un posto illegale. Dopo 5 anni cade l'accusa e nessuno ne parla perché bisogna pensare che Formigoni è colpevole. Contro di me c'è stata una persecuzione giudiziaria. In tanti si sono divertiti alle mie spalle. Un uomo sa quanto vale, io sapevo di valere e che stavo subendo un'ingiustizia e questo accresceva la sofferenza». È un'accusa al sistema? «È indubbio che la giustizia italiana è affetta da un virus: prende di mira il potere per avere popolarità. I giornali danno spazio alle indagini e montano le notizie contro gli avversari politici. Risultato, l'avviso di garanzia si rivela una condanna anticipata e ti ammazza politicamente». Il giustizialismo è ancora di moda o sta cambiando qualcosa secondo lei? «Effettivamente il clima da caccia alle streghe è meno pesante. I cittadini credono meno ai processi, hanno visto troppi innocenti tirati in mezzo e hanno realizzato che la giustizia viene spesso usata in modo strumentale. Durante le indagini e subito dopo la condanna, amici ed elettori mi trattavano come un appestato. Pensavo che sarei finito appeso in piazzale Loreto, poi qualcosa è improvvisamente cambiato, lo vedo negli occhi dei compagni di strada in politica e degli elettori. Adesso quando vado in giro la gente viene a salutarmi. I lombardi si ricordano che quando c'ero io vivevano bene, ed è per questo che mi candido in Lombardia, al proporzionale, senza paracadute. Voglio essere rieletto perché ho governato bene. La luce del mio ufficio restava accesa fino alle 22. Tutti i milanesi potevano vederlo». L'uomo di cui non sarà facile liberarsi veniva chiamato “il Celeste”, perché per quasi vent'anni ha lavorato in cielo. La luce dell'ufficio che restava accesa infatti è quella del trentesimo piano del Pirellone. Poi Roberto Formigoni, eletto per quattro volte consecutive governatore della Lombardia, ha provato ad ascendere ancora di più, fino al 40° piano del nuovo Palazzo della Regione che ha progettato, ma il tentativo è stato stoppato dalle inchieste. «Tremonti. Il caro Giulio mi ha accusato di volermi fare il grattacielo. “Formigoni si è montato la testa”, dicevano. Invece quella è stata un'operazione logica, di risparmio. La Regione pagava 26 milioni di euro l'anno d'affitto per i suoi uffici mentre oggi il mutuo che ha finanziato la costruzione del complesso ne costa 20. E poi ho radunato in un unico posto tutti gli edifici periferici della Regione, così in una mattina un imprenditore può svolgere pratiche che prima gli richiedevano tre giorni di tempo. Senza considerare la bellezza architettonica del complesso. All'inaugurazione c'erano 70mila milanesi, tutti plaudenti». Senatore - perché nel frattempo Formigoni è diventato senatore, eletto con Forza Italia nel collegio che gli ha lasciato Berlusconi in persona, transitato nel Ncd con Alfano e quindi in Alternativa Popolare -, la testa un po' se l'era montata, lo ammetta… «Anche lei mi attacca nel mio intimo?». Diciamo che ha rivisto il suo look ultimamente, è tornato sobrio, e decisamente più elegante, specie per essere un ex democristiano: ha accettato l'invecchiamento? «Sono stato costretto a cambiare look, ma guardi che anche lì fu montata un po' troppo la panna. Faceva tutto parte dell'attacco mediatico per screditarmi. Volevano farmi passare per uno poco equilibrato». Le giacche arancioni e le magliettine da gay pride però le metteva lei… «Era un omaggio agli stilisti lombardi, che mi regalavano dei capi d'abbigliamento, e io li mettevo ma nel weekend. A presiedere la giunta ci andavo in giacca e cravatta, e giacche meno pittoresche rispetto a quelle di Speroni. Solo che chi mi voleva male ha trasformato il divertissement in lavoro, ma non era così. La famosa giacca arancione l'ho messa solo due volte, agli Stati Generali dell'Expo, perché all'inizio non se lo filava nessuno e volevo trasmettere l'idea che la manifestazione sarebbe stata un'esplosione di fantasia e novità, e quando ho ricevuto una delegazione di arabi, cinquecento persone in caffetano bianco, ho pensato di dare un tocco di colore. Ma si può poi parlare di queste cose ancora? Parliamo della Lombardia: sono stato condannato per associazione a delinquere per aver fatto della sanità lombarda un'eccellenza internazionale. Vengono qui a curarsi da tutto il mondo. La mia riforma ha parificato il pubblico al privato, ha consentito ai poveri di curarsi negli ospedali dei ricchi, al San Raffaele e all'Humanitas. È stata una rivoluzione sociale». Ma la Lombardia si governa da sola, è una passeggiata… «Sììììì, lo chieda a Maroni, che dopo cinque anni già non ne può più. I lombardi hanno una marcia in più ma per questo sono esigentissimi, se batti la fiacca non perdonano. La Regione dopo di me non è migliorata». Per questo si ritira Maroni? «Lui ha addotto ragioni personali, e io ci credo». Non si ritira per il processo, o perché voleva fare il premier nel governo di larghe intese? «La giustizia è sempre una mannaia. Alle larghe intese non credo, perché il centrodestra vincerà». Perché a 70 anni, e dopo una carriera ricchissima, si candida con il rischio di essere bocciato dagli elettori? «La politica è una malattia. Il gusto di ragionare sulle cose e cercare di vederle in anticipo non ti abbandona mai». Se “Noi con l'Italia” non arriva al 3% però lei resterà fori dal Parlamento… «Alcuni sondaggi ci danno al 3%. Sono tranquillo, siamo partiti da un mese ed eravamo sotto l'1. Non faremo la fine della Lorenzin con “Insieme”». Perché ne è così sicuro? «Perché noi ci presentiamo con il centrodestra, coerenti alla nostra storia. Noi restiamo popolari, come la Merkel, non siamo diventati socialisti come la Lorenzin, Alfano e Casini, i quali evidentemente ritengono la loro identità negligibile». Negligibile? «Abbandonabile». Siete tutti, o quasi, ex azzurri: non facevate prima a chiamarvi “Noi con Forza Italia” anziché “Noi con l'Italia”? «No, siamo alleati ma diversi. Noi rappresentiamo il centro moderato, senza il quale non si vince né si governa». Perché un elettore dovrebbe votare voi e non Forza Italia? «Perché siamo una forza equilibratrice, daremo stabilità all'alleanza e le impediremo estremismi verbali e fughe nell'impossibile. Lo stiamo già facendo, siamo gli unici che in campagna elettorale non si riempiono la bocca con slogan fantasmagorici e irrealizzabili. E poi guardi le liste, di politici di razza ne abbiamo più noi. Gente che è uscita da Forza Italia perché ha troppa personalità». Lei ne ha fin troppa: per questo Berlusconi non l'ha mai chiamata al governo a Roma? «Questo lo chieda a lui, io certo ci sarei andato volentieri. Capisco però che ai tempi d'oro ero ingombrante. Troppo alto, oltre che bravo…». Non avete un leader… «Questo è un punto di forza: tutti i coordinatori degli altri partiti sono stati nominati dai vertici, noi invece traiamo la nostra forza dal territorio, siamo un partito contendibile, alla gente questo piace». Sta di fatto che i media non vi filano per nulla… «In queste prime settimane non abbiamo fatto campagna elettorale. Abbiamo preferito dedicarci a incontrare militanti, associazioni e gruppi di persone sul territorio, la nostra gente. Per questo siamo saliti nei sondaggi. E poi me l'aspettavo che i media ci oscurassero. Non siamo mica la Bonino, che la trovi ogni istante nei tg e sui giornali, perché è politicamente corretta e segue la direzione dei grandi poteri: lei è il massimo per i media, perché è di sinistra ma dà fastidio a Renzi». E voi invece? «A noi ci vogliono morti perché ne sappiamo una più del diavolo. Conosciamo gli intrighi della grande finanza internazionale, che vorrebbe farsi un boccone di quel che resta dei grandi gioielli italiani». Le sembra un discorso moderato? «E perché no? Noi diciamo solo che la globalizzazione va riequilibrata. Il ceto medio è stato depauperato, le nostre case valgono meno, noi stiamo con gli artigiani e gli imprenditori che mandano avanti l'Italia». Mi pare di sentire parlare Salvini o la Meloni… «Non è un caso se siamo alleati». Come si spiega la resurrezione di Silvio? «Lui ha nove vite ma certo il suo ritorno è anche una prova della debolezza degli altri. Il fatto che in Forza Italia non ci sia stato un rinnovo è un limite». Anche l'Europa ha cambiato opinione sul Cavaliere… «In Europa hanno il terrore che l'Italia, in caso di vittoria dei grillini, precipiti definitivamente nel caos. Consideravano Berlusconi morto e sepolto e avevano puntato su Renzi ma il regredire del rottamatore li ha costretti a cambiare cavallo e puntare sul redivivo Silvio come unica alternativa possibile a Cinquestelle». Come spiega i frequenti battibecchi tra Berlusconi e Salvini: semplice competizione interna? «Il centrodestra è diventato contendibile, questo è un dato di fatto, ma è anche il suo punto di forza. Salvini è bravo, altrimenti non avrebbe portato la Lega dal 3 al 14%. Lui non può dirlo, ma a questo giro gli va bene arrivare secondo dietro Berlusconi. Ha iniziato la scalata per prendersi tutto il centrodestra e doveva farlo per forza con Silvio ancora in pista. Però gioca troppo con la paura degli italiani. Un vero leader non scommette sulla paura degli elettori, ma sulle proprie proposte». E in tutto questo “Noi con l'Italia”? «Favorisce la sintesi, sapendo cogliere le sensibilità diverse e tradurle in azione di governo». di Pietro Senaldi @PSenaldi