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Sondaggio di Tecné, gli italiani preferiscono Mario Draghi: "Affidare a lui i 209 miliardi del Recovery Plan"

Francesco Specchia
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Puntiamo il nostro destino - e il nostro portafogli- su quel drago di Mario Draghi. Ci sarà un motivo se, secondo un sondaggio Tecnè per l'agenzia Dire, la maggioranza degli italiani preferirebbe che a gestire la cascata dei buoni propositi, il cantiere della ricostruzione, l'enorme flusso dei 209 miliardi di euro in arrivo dall'Europa con il Recovery fund, fosse Mario Draghi, e non Giuseppe Conte. Alla domanda "chi deve guidare la cabina di regia che gestirà i 209 miliardi", il 55,6% dei cittadini ha risposto senz' esitazione che l'incarico fosse dato all'ex presidente della Bce; mentre solo il 28,9% all'attuale Presidente del Consiglio, il 15,5% non saprebbe cosa rispondere. Questo nonostante l'indice di gradimento del premier sia abbondantemente al di sopra del 50%. Ma, evidentemente, per glo italiani, il far di conto non è cosa di Palazzo Chigi.

Non si fidano di Conte (pure se, tra gli elettori dei partiti di maggioranza, la percentuale cambia nettamente: il 29,8% sceglierebbe Draghi, mentre il 68,4% preferirebbe Conte). Ora, se dal punto di vista tecnico affidare i futuri investimenti della nazione all'uomo che ha salvato l'euro può essere comprensibile, dal punto di vista politico la riflessione è un'altra. Draghi nelle sue rare uscite pubbliche ha sempre disegnato scenari mondiali - evitando di citare la singola situazione italiana - in nome di una conclamata autorevolezza. Anche stavolta il timing dell'economista è stato perfetto. In piena crisi pandemica l'uomo si è palesato in qualità di copresidente e membro senior dell'autorevolissimo Gruppo dei 30 in coppia con un altro illuminato della finanza internazionale, Raghuram Rajan, ex governatore della Banca centrale indiana. E ha presentato al mondo un report che parte dall'allarme lanciato dalla Bri, la Banca centrale delle Banche centrali, la scorsa settimana: c'è il serio rischio di precipitare, una volta finita la pandemia, da una fase di crisi "legata alla liquidità a una incentrata sulla solvibilità".

 

 

In pratica, si rischiano fallimenti a catena soprattutto a causa dell'enorme flusso di liquidità pompato indiscriminatamente nelle economie per mantenere a galla le aziende. La soluzione, secondo Draghi, sarebbe «uno sguardo lungo sulla crescita» che comprende: soluzioni per il patrimonio delle banche, un approccio green all'economia, un irrobustimento del sistema finanziario e, in special modo, l'accorto impiego del Recovery Fund sulla base di progetti che devono avere un rendimento elevato a livello di benessere sia sociale sia economico (quest' ultima è una condizione che in Italia, per il momento è ancora nel grembo di Giove). Per Draghi, insomma, «c'è la necessità urgente di agire prima che sia troppo tardi. Offrire supporto al settore corporate nel modo più efficiente ed efficace possibile è essenziale per proteggere gli standard di vita in tutto il mondo e preparare il campo per una resilienza economica di lungo termine e una crescita sostenibile». In buona sostanza: urgono le solite "scelte, dure, difficili e impopolari" di cui non sentivamo il suono dai tempi del governo Monti nel 2011. Anche allora eravamo proiettati verso orizzonti apocalittici, e ci voleva un tecnico avulso dalle combine dei politici per tiraci fuori dal guano. Messo giù così, il report di Draghi, oggi pare quasi un programma politico. Quasi. Un programma che s' infila prepotentemente nel dibattito pubblico italiano proprio mentre il governo traccheggia in una non troppo convinta "verifica". E col nome proprio dell'ex governatore della Bce che rimbomba nelle futuribili scelte di Mattarella in una possibile (ma improbabile) crisi. Sarà sicuramente una coincidenza, ma affidare i danari a lui avrebbe una sua logica, e un suo disegno... 

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