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Luigi Di Maio, la sentenza azzurra di Antonio Martino:"Dove vedrei bene il ministro bibitaro oggi"

Fausto Carioti
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Tessera numero 2 di Forza Italia: quella vera, del 1994. La battaglia contro l'oppressione fiscale nasce dai suoi studi: senza Antonio Martino non ci sarebbe stato. «Meno tasse per tutti» e oggi nessuno parlerebbe della «flat tax», la tassa ad aliquota unica sul reddito. E poi ministro degli Esteri nel primo governo Berlusconi, ministro della Difesa, parlamentare in sei legislature. «Oggi non ho tessere in tasca», racconta. «Sono stato iscritto a Forza Italia e al Partito liberale e in entrambi i casi me ne sono un po' pentito. Di Forza Italia non molto, del Pli parecchio: facevo parte di una minoranza composta da una sola persona...». Il gusto per la battuta autoironica non gli è passato.

Lei fu ministro assieme ai leghisti Bobo Maroni, Giancarlo Pagliarini e Vito Gnutti. Com' era quella Lega?
«Era un partito del Nord secessionista e anti -meridionalista. Umberto Bossi aveva disprezzato pubblicamente la bandiera italiana e aveva detto cose terribili su Roma e su tutto il Sud. Era un partito regionale».

È cambiata molto?
«Oggi è tutto un altro mondo. Salvini mette sempre la mascherina con il tricolore. Sottolinea in ogni modo che la Lega vuole essere un partito nazionale italiano, non un partito regionale in Italia. Poi, se la qualità dei suoi dirigenti sia migliorata o peggiorata, non lo so. Ma di certo la Lega ha cambiato orientamento».

Questo può facilitare la nascita di una federazione con Forza Italia, come quella di cui ragionano Matteo Salvini e Silvio Berlusconi?
«Senza dubbio la rende meno difficile. Il miracolo di Berlusconi nel 1994 fu quello di allearsi con due partiti che non avevano nulla in comune. Gianfranco Fini, dal suo punto di vista giustamente, diceva che con Bossi non avrebbe preso nemmeno un caffè. Ambedue si allearono con Berlusconi: con alleanze separate, ma lo fecero. E questo determinò la debolezza dell'esecutivo e la sua fine prematura. Avendo concluso l'alleanza con un partito, An, le cui idee non condividevano, quelli della Lega erano perfettamente giustificati a fare cadere il governo».

La lezione da trarre per l'oggi?
«Tutto dipende dalle basi su cui la federazione è fondata. Occorre evitare che si ripeta ciò che accadde a noi, quando gli accordi presi prima delle elezioni furono disattesi dai nostri alleati subito dopo la vittoria. È per questa ragione che non riuscimmo a riformare la giustizia né a introdurre l'aliquota unica delle imposte sul reddito. Quindi la federazione si può fare solo se fondata su un impegno chiaro, vincolante, inequivoco, sottoscritto da tutti i partecipanti, a rispettare lo stesso programma».

Della sua Forza Italia, invece, è rimasto qualcosa?
«Credo di sì, se non altro perché alcuni di allora sono rimasti in parlamento e fanno ancora vita politica attiva. È sopravvissuta anche una parte di quel patrimonio ideale, sebbene molto modificata, come è comprensibile dopo tutto questo tempo. Chi oggi ha meno di 38 anni non sa nulla della Forza Italia di allora, ma fu davvero qualcosa di prodigioso».

Lei avrà ricordi infiniti.
«Emozioni straordinarie. Pensi che una volta, a Milano, in campa gna elettorale, mentre camminavo per tornare in albergo, un tram si fermò, i passeggeri applaudirono e il conducente scese per stringermi la mano. Sono cose che mi sembrano irreali a ricordarle oggi. Quando feci campagna elettorale nel '94 dissi a mia moglie che non sarei arrivato vivo alle elezioni».

Fu una cavalcata epica, cosa la turbava?
«Per la prima volta gli italiani avevano la possibilità, col loro voto, di decidere chi avrebbe governato. Potevano scegliere un programma davvero alternativo a tutto ciò che avevano conosciuto sino ad allora. I loro entusiasmi erano esplosi e io mi rendevo conto che avremmo solo potuto deluderli».

Li deludeste?
«In parte sì. La responsabilità è dei nostri alleati, come ho detto. Ma ormai non ha importanza. Conta solo che la rivoluzione liberale promessa da Berlusconi non si sia potuta realizzare. Mi consola pensare a quale era l'alternativa».

La vittoria della gioiosa macchina da guerra.
«Appunto. Abbiamo decisamente fatto meglio noi. Non dobbiamo dimenticare che la scelta era tra il mondo libero occidentale e una mentalità che risentiva pesantemente della matrice comunista. E poi senza l'alleanza voluta da Berlusconi l'Italia si sarebbe spaccata in tre: al nord avrebbe vinto la Lega, al sud An e al centro avrebbero vinto i comunisti».

Berlusconi ha appena riproposto il partito unico del centrodestra.
«Credo di essere stato presente quando gli nacque l'idea. Nel gennaio del 1997 avemmo un colloquio con José Maria Aznar a Madrid. Noi eravamo all'opposizione, lui era primo ministro. Aznar gli suggerì due regole: "Primo, non devi fare una coalizione, ma un partito. Secondo, il capo del partito deve essere anche capo del governo". Avessimo potuto usarle noi, quelle due regole, non avremmo avuto tutti quei problemi».

Sta dicendo che sul partito unico Berlusconi va preso sul serio?
«Di certo lui questa idea, da allora, l'ha sempre avuta. Ha anche provato a realizzarla, fallendo. Quanto sia realizzabile oggi, non lo so. Credo che né Salvini, né Giorgia Meloni, abbiano intenzione di rinunciare ai loro spazi di autonomia».

Comprensibile, no?
«Sì, è una cosa comprensibile, perché chi comanda a casa propria non vuole cedere lo scettro, nemmeno per conseguire assieme ad altri un fine maggiore. Ma è anche una cosa poco utile al governo del Paese».

Pure lei crede che il grande peccato di Berlusconi sia quello di non lasciare un erede?
«Guardi, io ho avuto più volte dissensi con Berlusconi. Se lei vuole che io lo critichi, inizio ora e finiamo l'anno prossimo. Però sono sinceramente e profondamente convinto che un altro come lui non ci sia. Lui è stato ed è ancora un leader straordinario. Un uomo dai sentimenti delicati e dalla capacità di realizzazione illimitata».

Il suo peggior difetto?
«È anche il suo più grande pregio: l'unicità dell'obiettivo. Berlusconi si pone uno scopo e finché non lo raggiunge non considera nient' altro. Questo nel mondo degli affari va benissimo, in politica no».

Dov' è la differenza?
«In politica i problemi non vengono in fila indiana, ma tutti in una volta. E se non hai attorno a te una squadra di persone capaci di cui fidarti, non riesci a governare. Il grande leader è quello che sa scegliere le persone che lo aiutano. Ed è qui che Berlusconi, purtroppo, non sempre ha avuto successo».

Ci sarebbe Antonio Tajani, il suo braccio destro.
«Io sono amico di Antonio. Ho molta stima della sua onestà, della sua competenza e dell'uomo che è. Però, purtroppo per lui, a causa di una serie di eventi, rappresenta ciò che la maggioranza degli italiani oggi detesta di più: la Ue, il Partito popolare europeo, Angela Merkel e tutto quel mondo, opprimente e indegno. Fino a non molto tempo fa, due italiani su tre erano per l'Europa; oggi due italiani su tre sono contro l'Unione europea».

E hanno torto o ragione?
«Hanno assolutamente ragione! Perché quello che l'Ue fa non ha nulla a che vedere con l'Europa unita. Gli Stati uniti hanno un governo federale da più di due secoli, ma lì le targhe automobilistiche sono a discrezione dei singoli Stati. Perché l'Unione europea ha imposto lo stesso tipo di targa? Perché confonde l'unità con l'uniformità. Ma l'unità si può avere nella varietà e nella grande ricchezza dell'Europa, l'uniformità la possono avere solo i monotoni, i privi di fantasia. E avere imposto a tutti gli Stati le stesse regole di bilancio e tributarie è stata una vergognosa idiozia».

Lei è stato ministro degli Esteri. Perché la politica estera conta così poco in Italia?
«I politici italiani la considerano un ramo secondario perché il ministero degli Esteri ha un bilancio molto piccolo. Non si rendono conto che mai, nella storia dell'umanità, è esistito uno Stato senza difesa e senza politica estera. Questi non sono due tra i tanti compiti dello Stato: sono lo Stato. È il motivo per cui l'Unione europea non esiste: nessuno Stato membro è disposto a cedere sovranità in materia di politica estera e di difesa».

Non farà molto piacere a Ursula von der Leyen, apprendere di essere il capo di una cosa che non c'è.
«Poverina, è risibile. Si è talmente convinta di essere una delle persone più importanti del pianeta che fa ridere a crepapelle».

Cosa deve essere la Russia per l'Europa e per noi?
«Il nostro problema, oggi, è il terrorismo globale. Per contrastarlo non servono alleanze di difesa, ma organizzazioni di sicurezza. Queste sono tanto più efficaci quanto più sono inclusive. Quindi Mosca non deve essere antagonizzata, come vuole la Ue, ma va coinvolta nel contrasto al terrorismo, che è una minaccia pure per la Federazione russa. È il motivo per cui, nel vertice di Pratica di Mare, Berlusconi fece includere la Russia nel G8, creando addirittura un collegamento con la Nato».

Un partito filocinese come il M5S può essere il caposaldo della maggioranza di un governo atlantista come quello di Mario Draghi?
«Ma assolutamente no. E mi faccia dire che chiamare "partito" il movimento Cinque Stelle è una palese esagerazione».

Lei come lo definisce?
«L'invenzione di un guitto genovese di scarso talento, ma furbissimo, che ha creato questa cosa basata sul disprezzo per tutti e per tutto, priva di qualsiasi consistenza ideologica. È filocinese? Potrebbe essere anche filocoreano o filoiraniano, sarebbe comunque una nullità dal punto di vista intellettuale. Un fenomeno disgustoso per il nostro Paese. E lo dico pur avendo per alcuni dei suoi esponenti un certo apprezzamento».

Tra i pochi che apprezza c'è pure il suo successore alla Farnesina, Luigi Di Maio?
«Il bibitaro del San Paolo, con rispetto parlando, avrebbe dovuto continuare nella sua prima professione, nella quale parlare il partenopeo era più che sufficiente per svolgere le funzioni che gli competevano. Credo però che lui non parli nessuna lingua tranne il partenopeo: non so come possa fare il ministro degli Esteri»

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