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Giuseppe Conte, il suo M5s ostaggio delle correnti: giustizia, cosa può accadere in aula

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 Giuseppe Conte

Antonio Rapisarda
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Il giorno dopo il compromesso sulla riforma Cartabia - che di fatto cestina l'epoca Bonafede e il suo fine processo mai - l'ordine di scuderia in casa 5 Stelle è simulare la «vittoria», o quantomeno una sorta di resistenza eroica a soverchianti forze avversarie. Il piano, davanti alla realtà, è ilfuoco di sbarramento di comunicati dei contiani per "celebrare" come ennesimo successo ciò che rappresenta la Caporetto grillina sulla prescrizione («Non è il nostro progetto originario», ammette candido lo stesso ex Guardasigilli). La retorica militare corrisponde in verità ai toni suggeriti da Casalino: «Sulla riforma della giustizia il M5S ha vinto una battaglia durissima, combattuta da solo contro tutti», recita il bollettino. 

 

«I risultati ottenuti, di grande importanza, si devono anche alla ritrovata compattezza del Movimento». Di risultati, invero, i pentastellati possono rivendicare solo i tempi più lunghi per tutti i reati iscritti come di mafia, contestando agli imputati - questo il contentino dell'ultima mediazione - la famigerata aggravante del 416 bis 1, primo comma. In pratica il protocollo "Mafia capitale", caro a certi pm, che tuttavia potrà essere ogni volta smontato dai magistrati giudicanti, proprio come avvenuto per l'ex sindaco di Roma Alemanno. Ambienti governisti dei 5 Stelle, che rivendicano un approccio più aderente ai fatti, la mettono così a Libero: «La riforma Bonafede non esiste più: è incomprensibile certo trionfalismo...». 

Quanto all'attivismo di Conte, con i moniti a Draghi, «è stato un bluff fin dall'inizio. Non ha più in mano Palazzo Chigi». Il risultato? «Gli stava scappando di mano la situazione», continuano le fonti. «Si è rischiato il crac: finiva davvero che ci astenevamo». Il problema, sottinteso, è che nel momento in cui il leader avesse anche solo cercato di mettere a rischio l'accordo di governo, e quindi la lunga tenuta della legislatura, si sarebbe certamente materializzato il voto in dissenso di una significativa componente del M5S. Altro che «compattezza», insomma. «Il dossier giustizia certifica che esistono le correnti. Quelle tanto odiate da Conte e dallo statuto. Che non ha affatto il 100% del gruppo», chiarisce a sua volta un esponente grillino al nostro giornale, ricordando che la mediazione di giovedì «per noi è stato il massimo che si poteva ottenere». Il problema, riferiscono, è che Conte ha rischiato di far saltare un accordo che era già stato raggiunto all'unanimità dai loro ministri, con Luigi Di Maio e senza Conte, che al momento di decidere era preso nella sua lite con Grillo. 

 

Serafica ieri il ministro della Giustizia Marta Cartabia che, da parte sua, anche grazie alla sponda dei governisti M5S, non ha dubbi sulla celere conferma della sua riforma (domani alle 14 il testo arriverà in Aula): «Non temo sorprese, abbiamo preso un impegno. Tutte le forze di maggioranza si sono impegnate anche in termini di comportamento in Parlamento, e ci auguriamo come auspicabile che il procedimento si concluda in pochi giorni». Sul campo rimangono le spoglie della battaglia: la lista dei desideri non soddisfatti di Conte. Fra le altre cose, l'estensione della prorogabilità ad libitum del termine di improcedibilità ai reati controla PA (che comprendono l'abuso d'ufficio, passepartout per indagare gli amministratori), l'abrogazione della norma sui criteri generali da seguire nell'esercizio dell'obbligatorietà dell'azione penale indicati dal Parlamento - al contrario confermati dal voto di ieri in Commissione Giustizia - fino all'eliminazione del divieto di "reformatio in peius", sogno proibito del partito dei pm.

 

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