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Enrico Letta, salasso Mps: perché il suo seggio costa agli italiani 10 miliardi di euro

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Sandro Iacometti
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I conti esatti si faranno alla fine. Ma ad occhio e croce la corsa di Enrico Letta per il seggio di Siena potrebbe costare agli italiani oltre 10 miliardi. Eh sì, perché per l'ennesima volta la strada del Pd si intreccia con quella di Mps. E se guardiamo i precedenti, per i contribuenti c'è poco da stare allegri. Attenti a non perdere il filo poiché la trama è intricata. Tralasciamo, per semplificare, la storia antica della banca senese, per decenni controllata dalle giunte locali rosse, attraverso la Fondazione, e i pasticci gestionali che hanno fatto saltare i bilanci. Arriviamo direttamente agli anni delle grandi crisi bancarie, quando il governo a guida Pd si è trovato alle prese con i crac di Etruria & Ce delle popolari venete.

 

Quando arriva il turno del Monte dei Paschi, nel 2017, il ministro dell'Economia, Pier Carlo Padoan, mette sul piatto 5,4 miliardi di denaro pubblico. Non per agevolare la liquidazione e la cessione dell'istituto, come fu per Pop Vicenza e Veneto Banca, ma per far entrare direttamente il Tesoro nel capitale. Dopo una lunga trattativa per convincere Bruxelles che non si trattava di aiuti di Stato, ma di un'operazione temporanea a condizioni di mercato (la ricapitalizzazione precauzionale), il Pd cerca anche di far passare la mossa come un affare per le casse dell'erario. Ecco il risultato: la quotadel 64,2% acquistata per 3,9 miliardi oggi vale 700 milioni. Prima di bruciare oltre tre miliardi dei contribuenti, però, Padoan passa all'incasso: si presenta e vince (seppure non di molto) nel 2018 nel collegio di Siena.

Si arriva così agli anni più recenti, con la scadenza fissata dalla Ue per l'uscita del Tesoro da Mps sempre più vicina e la situazione della banca "nazionalizzata" sempre più disastrosa. In questo scenario si inserisce il tentativo dell'ex ministro piddino Roberto Gualtieri di mollare l'istituto a Unicredit. L'allora ad Jean Pierre Mustier, però, non ne vuole sapere. Una parte del Pd, soprattutto quello toscano, neanche. E i mesi passano.

Finché non c'è il colpo di scena: nel novembre del 2020 Padoan lascia la politica (e il seggio che in autunno vuole prendersi Letta con le suppletive) ed entra nel cda di Unicredit per diventare presidente. Dopo un po' capitola anche Mustier. Al suo posto va Andrea Orcel. Il resto è storia di questi giorni. Il nuovo amministratore delegato ha avviato una trattativa con il Tesoro per verificare se esistono le condizioni per una acquisizione. Non di tutta Mps, ovviamente, ma solo della parte buona.

Il che significa lasciare a carico dello Stato tutto il marcio rimanente, dalle sofferenze al contenzioso, fino agli sportelli e ai dipendenti in eccesso. Analisti ed esperti si stanno arrovellando in queste ore a calcolare quanto potrà costare l'operazione per i contribuenti. A spanne, tra gli oltre due miliardi di crediti fiscali già stanziati dal governo, i circa 2 miliardi di aumento di capitale, i 4 miliardi di contenziosi e gli oneri per Npl ed esuberi la cifra si avvicinerà ai 10 miliardi. In cambio lo Stato potrebbe entrare, questa volta sperando di ricavarci qualcosa, in Unicredit con una quota intorno al 5%.

 

 

 

 Si può fare di meglio? Forse. Ma è difficile pensare che Mario Draghi e il ministro dell'Economia, Daniele Franco, che non sono proprio dei novellini in fatto di banche, si avventureranno in un'operazione dolorosa se non sarà l'unica a disposizione. La verità è che i danni sono già stati fatti. E ora non resta che limitarli. Tutto il contrario di quello che sembra pensare il Pd, che dopo un iniziale imbarazzo si è schierato ufficialmente contro la trattativa che sta scatenando l'ira dei sindacati e la rivolta del territorio.

A livello locale con il presidente della Regione Toscana, Eugenio Giani, che definisce l'ipotesi inaccettabile e chiede un tavolo con gli enti locali, e a livello nazionale con i capigruppo di Camera e Senato, che hanno chiesto a Franco di riferire con urgenza in Parlamento. Intendiamoci, i Dem non sono isoli in queste ore a fare baccano. Ma sono gli unici che hanno mangiato per anni con Mps e che ora, dopo aver messo in ginocchio la banca e prosciugato le tasche dei contribuenti, si presentano a Siena per chiedere l'ennesimo dividendo. Una decina di miliardi, sembra di capire, sono già andati. Il rischio, più che concreto, è che per garantire uno strapuntino al segretario, il Pd faccia diventare il conto ancora più salato.

 

 

 

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