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Giorgia Meloni, "centrodestra senza leader". Senaldi: urne e Quirinale, cosa si nasconde dietro lo sfogo

Giorgia Meloni

Pietro Senaldi
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Prendere coscienza del problema è il primo passo, indispensabile, per risolverlo. Quindi in apparenza non ci sarebbe nulla di strano nell'uscita fatta ieri da Giorgia Meloni. La presidente di Fdi ha ammesso candidamente ai microfoni di Telelombardia che «il centrodestra è senza un capo perché, se c'è chi sta al governo e chi all'opposizione, è difficile avere un leader che poi decide per tutti». La politica nostrana però non è così lineare e anche la frase più banale, in bocca al capo del primo partito nei sondaggi, nasconde significati reconditi. Il primo, e più immediato, è il messaggio a Salvini: non ti riconosco più come primus inter pares della coalizione. La ragione non si limita al fatto che in questo momento Matteo sostiene Draghi e Giorgia no, e neppure risiede unicamente nella risicata percentuale di vantaggio che gli istituti demoscopici riconoscono a Fratelli d'Italia. Il dissidio è più profondo. La Meloni rimprovera al Capitano di non essere stato capace di realizzare, ma è più corretto dire di non aver voluto trovare, una sintesi delle posizioni e degli interessi politici, e di poltrone, dal Copasir alla Rai, dei tre partiti della coalizione. Gli rinfaccia, ora che le resistenze dentro Forza Italia rendono più ardua la realizzazione del progetto di federazione verde-azzurra, di aver tentato di prescindere da lei, come ai tempi in cui il leader leghista, ministro forte del governo gialloverde, inseguiva la vocazione maggioritaria del suo partito.

 

 

NELLE URNE
Dal canto suo, Salvini si ostina a non rapportarsi da pari a pari con Fdi nei tavoli di trattativa del centrodestra, insensibile al nuovo equilibrio nei rapporti di forza con l'elettorato. Lo infastidiscono le posizioni della Meloni su vaccini, Covid, Europa, e i tranelli parlamentari come la sfiducia a Speranza prima e Lamorgese poi, interpretati in via Bellerio come quotidiane provocazioni figlie di una strategia di guerriglia che Giorgia attuerebbe per mettere in difficoltà l'alleato. Chi dei due abbia ragione, anzi meno torto, è argomento che appassiona solo i militanti dei rispettivi partiti, diverte Berlusconi, il quale osserva perplesso i suoi eredi che considera indegni, e intristisce gli elettori del centrodestra, che vorrebbero vedere quagliare i loro beniamini. Probabilmente tra dieci giorni il centrodestra raccoglierà nelle urne quanto ha seminato, cioè poco, ma la preoccupazione èche, se batosta dovesse essere, la lezione non sarà compresa e anzi darà la stura a nuove polemiche e dispetti. Tra i due litiganti, il terzo gode, e già circolano sondaggi che vedono il Pd prima forza nazionale, con Fdi e Lega scalzati. Salvini e Meloni hanno portato i rispettivi partiti a vette impensabili e mai raggiunte dai loro predecessori. I numeri in politica sono quasi tutto, ma l'abilità di un leader può permettergli di menare il torrone per quindici anni senza mai neppure sfiorare il 20%, come accadde a Craxi, quanto l'irrisolutezza può farlo sparire subito dopo avere incassato il 25%, come accadde a Bersani. È straordinario che Giorgia e Matteo viaggino intorno al 20% e il centrodestra unito sia al 48, ma è inquietante che nessuno sappia cosa fare per ottimizzare tutto questo consenso che, se non verrà impiegato presto e bene, si perderà.

 

 

SGUARDO AL COLLE
I tamburi del Palazzo già suonano una nuova musica. Il ritornello è Draghi per sempre, a prescindere dall'esito del voto del 2023. Lo vogliono gli industriali, i poteri forti, i burocrati, le banche, i padroni dell'informazione. È una delegittimazione dei partiti. M5S non esiste più e non può opporsi. Il Pd fa buon viso a cattivo gioco: dice sì perché teme la vittoria elettorale di Lega e Fdi, dai quali non arrivano segnali di vita in proposito. L'appuntamento è per le elezioni del nuovo capo dello Stato. Se il centrodestra, dopo aver portato Berlusconi, proporrà Draghi, sarà difficile per la sinistra opporsi. Altrimenti, Giorgia e Matteo dovranno rassegnarsi a un Mattarella bis, ma solo nella migliore delle ipotesi. L'opzione Draghi per sempre è una bocciatura soprattutto per i Dem, che sono da 25 anni il partito referente dei centri di potere. Ma sfiorare il 50% e non riuscire a controproporre qualcosa di sostenibile e durevole solo perché si è divisi, sarebbe una prova di immaturità imperdonabile per il centrodestra. Il remake su scala nazionale del tormentone Bernardo e Michetti è improponibile.

 

 

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