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Mario Draghi "ai ferri corti coi partiti". Lui e Giorgia Meloni... dalle sacre stanze un'impensabile indiscrezione

Mario Draghi

Fausto Carioti
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Da una parte Mario Draghi e il suo governo, che lavorano tanto e fanno le cose in modo responsabile. Dall'altra i partiti, che non capiscono la gravità della situazione e giocano con la pancia degli elettori, combinando guai e rallentando il Paese. Una contrapposizione netta, insomma: è questa, ormai, la narrazione diffusa dentro l'esecutivo. Renato Brunetta lo ha detto senza giri di parole lo scorso fine settimana, collegandosi ad un convegno organizzato da Magna Carta, la fondazione di Gaetano Quagliariello. Il ministro per la Pubblica amministrazione ha parlato di «una sorta di separatezza tra l'azione di governo, che è forte, coesa, netta ed efficiente, e la rappresentazione che ne danno gli stessi partiti di governo». Questi ultimi sono preda della «sindrome» che li induce «a piantare le loro bandierine», ancora «legati all'ideologia, a volere ogni volta qualcosa di più».

 

 

«Tante polemiche e tanti like, però poi, alla fine, urne vuote». Anche se indossa la maglia azzurra dei berlusconiani, Brunetta è vicino a Draghi: ciò che lui ha dichiarato in pubblico, la gran parte dei ministri - inclusi quelli politici - lo sostiene in privato. Il presidente del consiglio tace. Si sa, però, che ha preso male l'altissimo numero di emendamenti alla manovra presentati dai partiti. Sperava che farli decidere sull'uso degli 8 miliardi di euro destinati al taglio delle tasse li avrebbe accontentati. La "quadra" tra i partiti della maggioranza è stata raggiunta, ma il governo si è trovato comunque davanti a 6.290 proposte di modifica, in grandissima parte sottoscritte dalle forze che lo sostengono. Ancora meno Draghi gradisce la richiesta, che ormai gli giunge da tutti i partiti, di far sapere se intenda candidarsi o no alla successione di Sergio Mattarella (sottinteso: altrimenti ci mettiamo d'accordo su un altro nome).

 

 

La vede come un modo per bruciarlo, ed è difficile dargli torto. Per paradosso, l'unico leader di cui si fida, sotto questo aspetto, è Giorgia Meloni: se non altro per avere le elezioni anticipate, lei e i suoi lo voterebbero. Anche se il premier tiene la bocca cucita, tra i suoi stretti collaboratori c'è chi parla. Ed è proprio dal suo entourage che, ogni volta in cui i rapporti con i partiti toccano il fondo, come sta avvenendo adesso, qualcuno fa partire l'avvertimento: attenti, che un Draghi maltrattato potrebbe dimettersi appena eletto il prossimo capo dello Stato. Oggi l'uomo ha un profilo altissimo e la possibilità di ambire alla presidenza della Commissione Ue o a quella del Consiglio europeo, ambedue destinate a cambiare guida nel 2024.

 

 

Deve però evitare di bruciarsi nel frattempo, e restando a palazzo Chigi il rischio che questo accada è alto: ciò che stanno combinando i partiti adesso è nulla in confronto a quello che faranno a ridosso delle elezioni politiche. Pensieri che rimangono lì, per ora. Col suo curriculum, Draghi è pur sempre il candidato "naturale" al Quirinale: ignorarlo sarà impossibile per tutti, preferirgli un altro sarà difficile. Anche perché un angelo custode simile, lassù per sette anni, farebbe comodo ad ogni premier. E lui potrà diventare il tredicesimo presidente della repubblica solo se i partiti lo vorranno. Così, anche se avrebbe tante cose da dire, se le tiene per sé e aspetta di vedere che succede. Meglio che a parlare siano gli altri. 

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