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Giuseppe Conte, il "no" a Enrico Letta e le conseguenze per il Quirinale: Pd, l'ora del terrore

Elisa Calessi
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Domenica pomeriggio le chat dei parlamentari dem, specie quelle di Base Riformista, si sono infuocate. «Ma veramente regaliamo il seggio a Conte?». «La situazione era troppo placida. Dopo essere riusciti a far arrabbiare Mattarella, serviva qualcosa di più sensazionale e definitivo». Il «colpo di genio», come ironicamente si definisce l'idea di offrire al capo del M5S la candidatura nel collegio blindato di Roma 1, sarebbe venuta a Nicola Zingaretti. Dopo un veloce giro di consultazioni in quello che viene definito il nuovo «cerchio magico dem» - da Enrico Letta a Goffredo Bettini, da Dario Franceschini a Claudio Mancini, plenipotenziario di Roma - arriva il sì definitivo: salviamo il soldato Conte e portiamolo in Parlamento. Non si tratta di generosità. L'obiettivo è avere un alleato affidabile nella partita del Quirinale, uno in grado di controllare un pacchetto importante di voti. Conte sarebbe perfetto. Se controllasse il M5S.

 

 

 

Peccato che la "genialata" scatena il putiferio: Carlo Calenda annuncia che si candiderà, Matteo Renzi promette una battaglia campale per evitare che l'ex premier sia eletto. Benedetto Della Vedova fa sapere che Più Europa non ci sarà se il Pd sostiene l'ex premier. La candidatura di Conte a Roma, insomma, non solo fa esplodere definitivamente la possibilità per il Pd di un'alleanza almeno con Calenda, se non con Renzi, ma diventa l'occasione per l'area di centro di costruire una santa alleanza contro il matrimonio Pd-5Stelle. Con il rischio di perdere pezzi anche tra quei dem che tutto vogliono tranne che sposarsi con i pentastellati. Dalle parti di Base Riformista, l'area di Guerini e Lotti, trapela un certo «stupore» per la candidatura del leader M5S. Non tanto per il rapporto con i Cinquestelle o per il nome dell'ex-premier, quanto per la praticabilità dell'operazione. Si rischia, è il ragionamento, di trasformare un'elezione suppletiva dall'esito scontato in qualcosa di molto più complicato. Peraltro a pochi giorni dall'inizio delle votazioni sul capo dello Stato.

 

 

Negli stessi ambienti si nota, poi, che l'operazione va contro l'idea di costruire quel campo largo di cui parla Letta. La scelta di Conte, infatti, è un atto di guerra nei confronti di Calenda, che da sempre pone come pregiudiziale all'alleanza con il Pd la rottura con il M5S. Mettere in campo il capo del M5S, si dice, vuol dire rompere definitivamente con il leader di Azione. In una zona di Roma dove Calenda, alle elezioni comunali, ha preso moltissimi voti. Con il passare delle ore persino nel M5S si moltiplica lo scetticismo nei confronti della "genialata" del Pd. Un po' per realismo - si è capito che si rischia di perdere - un po' perché metà del M5S non vede l'ora di liberarsi di Conte. A metà pomeriggio fonti del M5S fanno sapere che le perplessità superano le certezze, è «più che no che sì». Alle 18 è lo stesso Conte ad annunciare il passo indietro. Il pasticcio è fatto. Calenda festeggia. Dal Nazareno, silenzio (ora si pensa agli ex sindacalisti Furlan e Bentivogli e all'ex deputato Enrico Gasbarra). C'è rabbia, ma soprattutto preoccupazione per quello che può accadere a gennaio, quando il Pd dovrà accordarsi con il M5S sul Quirinale. Solo che nel M5S, come si è visto, Conte non comanda. 

 

 

 

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