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Conte, storia di un bluff a 5 Stelle. Lo diceva pure Grillo: Giuseppe è il nulla

 Conte, Grillo e Di Maio

Alessandro Giuli
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Era giusto un anno fa, giorno più giorno meno, e per la prima volta il comico Beppe Grillo fu serio, coerente e veritiero come mai prima: «Giuseppe Conte non ha visione politica né capacità manageriali». Erano allora in gioco i fondamentali del velleitario rilancio pentastellato, una cura ricostituente per un Movimento giunto alla terzaesperienza di governo in una sola legislatura, con mezza faccia caduta, parlamentari ed elettori in fuga, un atrabiliare bispremier alla ricerca d'un trampolino dal quale rilanciarsi dopo l'estromissione da Palazzo Chigi a beneficio di Mario Draghi. Fu così che il causidico di Volturara Appula cercò di scriversi uno statuto su misura in modo da limitare i poteri di Grillo, il fondatore, l'Elevato suo creatore insieme a Luigi Di Maio, al punto tale da musealizzarlo nel notorio blog senza poteri decisionali. Come una statua di marmo parlante ma non più decidente.

 

 

SENZA APPELLO
Giustamente il demiurgo, incattivito assai, rispose così: «Conte non ha esperienza di organizzazioni, né capacità di innovazione... questo l'ho capito, e spero che possiate capirlo anche voi... Non possiamo lasciare che un movimento nato per diffondere la democrazia diretta e partecipata si trasformi in un partito unipersonale governato da uno statuto seicentesco... Vanno affrontate le cause per risolvere l'effetto ossia i problemi politici (idee, progetti, visione) e i problemi organizzativi (merito, competenza, valori e rimanere movimento decentralizzato, ma efficiente). E Conte, mi dispiace, non potrà risolverli». Grillo in quell'occasione non poteva saperlo, ma le sue parole rientravano con estrema precisione nella caratteristica facoltà profetica dei buffoni di corte e dei moribondi (politicamente parlando, in tal caso).

I due avrebbero fatto pace di lì a qualche settimana, ma era una pace d'argilla e di fango, nella quale Conte ha finito per impaludare l'ultimo lacerto di popolarità che gli derivava dall'essere stato premier con poteri straordinari nello stato d'emergenza pandemico più angosciante dell'ultimo secolo. E in questa palude il cinico Grillo lo ha progressivamente abbandonato invaghendosi perfino di Draghi («uno dei nostri!»), con il quale avrebbe preso la consuetudine di scambiarsi telefonate o messaggini confidenziali e derisori, in un misto d'indolente cazzeggio proprio alle spalle dell'inadeguato, ex «fortissimo punto di riferimento progressista» secondo l'incauta definizione coniata dal suo compagno di sventura Nicola Zingaretti quando ancora credeva di essere il segretario del Partito democratico.

Ah se Grillo avesse davvero ponderato sin da subito la portata di quelle sue dichiarazioni affilate come la lama di un chirurgo impegnato nell'autopsia d'una carriera ormai oltretombale... chissà, magari adesso non si ritroverebbe costretto a dare del traditore al governista Di Maio mentre raccoglie i cocci infranti dall'inconsolabile avvocato foggiano. Perché aveva proprio ragione: Conte mancava di qualsiasi esperienza che non fosse circoscritta nell'oratoria tribunalizia d'una paglietta novecentesca disponibile a ogni committenza, con quella sua voce appiccicosa e sfibrante come carta moschicida, quella sua istintiva devozione per il potente di turno (ricordate la birra con Angela Merkel accompagnata da salatissimi commenti contro l'alleato sovranista Matteo Salvini?), quel suo narcisistico bisogno di fastosità egoriferita - dalle conferenze stampa nel cortile di Palazzo Chigi agli Stati generali per rimpannucciare l'Italia convocati in mondovisione nell'estate 2020 a Villa Doria Pamphilij - e così stridente rispetto alla gravitas richiesta dalle tragiche circostanze.

 

 

I TEMPI DELLA GRANDEUR
E adesso, di là dalla profezia grillina dell'estate scorsa, che cosa resta dell'ex premier che voleva farsi un principato tutto suo, o in alternativa un partito, sorretto soltanto dalla capacità metamorfica di fingersi a giorni alterni populista in grisaglia o statista in maniche di camicia? Ben poco: dai vertici dei Servizi segreti al potentato d'Invitalia in cui regnava l'ex super commissario Domenico Arcuri, lo spoil system draghiano è andato avanti con il passo cadenzato e geometrico del gesuita euclideo. Parallelamente, la piccola nomenclatura pentastellata si è divisa e disciolta da programmi inesistenti e vincoli d'obbedienza rimasti allo stadio tribale: i grandi notabili hanno seguito l'enfant prodige di Pomigliano d'Arco o si sono accodati alle filiere più promettenti d'altri partiti. I trinariciuti più identitari sono stati via via espulsi come calcoli renali. Certo è rimasto Alessandro Di Battista in piazza, e che piazza: quella rossa di Mosca, ad attendere che "Giuseppi" -vezzeggiato così, come un peluche, anche da Donald Trump quando era interessato ad avere accesso ai nostri segretucci di Stato riguardanti presunte congiure contro di lui - ritorni laddove dove tutto è iniziato: tra la Russia e la Cina, lungo la Via della Seta santificata dallo stregone Grillo nel suo laboratorio di leadership abortite. 

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