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Crisi di governo, tutto torna: forze troppo diverse non possono convivere

Francesco Carella
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La crisi del governo Draghi la si può comprendere meglio nelle sue dinamiche profonde se viene analizzata alla luce di due anomalie che caratterizzano il nostro sistema politico. La prima è di ordine storico e attiene al mancato sviluppo in Italia di una compiuta democrazia dell'alternanza. Dal "connubio" preunitario di Cavour al trasformismo targato Depretis fino alla centralità della Democrazia cristiana negli anni della prima Repubblica, nel nostro Paese sono sempre state privilegiate - in nome "dello stato d'eccezione" - le "larghe coalizioni di centro" composte da forze politiche portatrici di visioni politiche a tal punto distanti da rendere impossibile una razionale azione di governo. Esperienze di questo tipo le abbiamo conosciute sia nell'Italia liberale - dove cattolici e repubblicani si erano autoesclusi dal gioco democratico- che durante la prima Repubblica, là dove la presenza del Partito comunista impediva l'alternarsi alla guida dell'esecutivo.

 

 

 

Dopo la caduta del Muro di Berlino si pensò che fossero maturi i tempi per cambiare radicalmente registro. Si trattò di una breve illusione.
Infatti, sia a destra che a sinistra si formarono coalizioni palesemente eterogenee adatte sì a vincere le elezioni, ma non in grado di assicurare governi stabili nei tempi lunghi.
Non si va molto lontano dal vero se si scrive che l'eterogeneità delle forze politiche coinvolte, anche qui nel segno dello stato d'eccezione, rappresenta la causa principale della crisi del governo Draghi. D'altronde, l'effetto paralizzante di un tale modo di costituire le maggioranze venne già indicato da Giovanni Giolitti come uno dei peggiori mali del sistema politico italiano, quando nel 1899 scrisse che «è vastissimo il campo delle riforme urgenti e facili a farsi nell'amministrazione dello Stato.

 

 

 

Mi chiedo come avviene che dopo tante promesse, ministri e Parlamento siano stati impotenti a compierne alcuna... I partiti debbono essere d'accordo almeno sulle linee generali di un programma. Il mettere insieme uomini politici che partono da concetti discordanti e tendono a fini diversi può produrre un solo effetto: l'immobilità e la paralisi». Ma se in passato vi erano condizioni oggettive che impedivano lo sviluppo in Italia di una reale democrazia dell'alternanza, dopo oltre un secolo e mezzo di storia unitaria è giunto il momento di comprendere che un governo in grado di prendere decisioni efficaci, ancorché divisive, richiede «aggregati omogenei in rappresentanza di comuni interessi e ideali».
Resta da chiarire il carattere di un'altra anomalia altrettanto esiziale per la vita politica del nostro Paese. I sistemi di democrazia rappresentativa sopportano fino ad un certo punto le divaricazioni fra una maggioranza formale e un sopravvenuto mutamento degli orientamenti elettorali.
Un esempio di scuola è dato da ciò che sta accadendo nel panorama parlamentare italiano, là dove la distribuzione della rappresentanza sancita dalle elezioni del 2018 è ormai in larga parte superata: il M5Stelle è lontano anni luce dal successo ottenuto quattro anni or sono. In tal senso, vale la pena di ricordare le parole del costituzionalista Costantino Mortati quando sosteneva che fosse indispensabile una certa «concordanza fra corpo elettorale e corpo parlamentare, per assicurare una corretta e stabile vita democratica. Qualora una tale concordanza venisse meno», scriveva, «non resterebbe che la consultazione del corpo elettorale da effettuare con lo scioglimento anticipato delle Camere per mano del presidente della Repubblica». È difficile essere più chiari.

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