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Giorgia Meloni, tasse e fisco: la rivoluzione copernicana "anti-fannulloni"

Sandro Iacometti
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Basta guardare la valanga di accuse che le è piovuta addosso per avere un'idea di quanto sia «copernicana» la «rivoluzione» annunciata da Giorgia Meloni. Dopo aver spiegato con chiarezza e in italiano (a scanso di equivoci) che la sua ricetta per combattere la povertà non è quella di regalare sussidi (tipo reddito di cittadinanza) a chi può rimboccarsi le maniche, ma di fornire a tutti la possibilità di portarsi a casa uno stipendio dignitoso, ieri la leader di Fratelli d'Italia ha completato il ragionamento, spiegando che i salari non si alzano per legge (quello «minimo è uno specchietto per le allodole»), ma tagliando il cuneo fiscale e mettendo le imprese in condizione di crescere e assumere.
Apriti cielo. «La Meloni è contro i poveri e contro la dignità dei lavoratori», è stato il commento più o meno fotocopiato arrivato da diversi esponenti dem, compreso il ministro del Lavoro, Andrea Orlando, che si è inventato uno slogan da stadio (Gol, garanzia di occupabilità dei lavoratori) per lanciare un programma di politiche attive che nessuno ha ancora mai visto.
 

REGALI AI FANNULLONI La realtà è che meno regali ai fannulloni e meno sgambetti a chi produce, sintetizzando all'estremo le proposte della Meloni, sono le due gambe di un'operazione diametralmente opposta, così come lo era il sistema tolemaico rispetto a quello scoperto da Niccolò Copernico, alle soluzioni proposte da sempre dalla sinistra: invece di pensare a distribuire i soldi che già ci sono attraverso tasse e balzelli, creare nuova ricchezza favorendo la produzione, l'occupazione e lo sviluppo economico.
«Non bisogna disturbare chi vuole fare. Serve una burocrazia snella, tasse sostenibili e un rapporto equilibrato tra Stato e fisco», ha spiegato ieri in un video su Facebook la presidente di Fratelli d'Italia, aggiungendo che dopo «dieci anni di governi di sinistra che hanno reso la vita impossibile a chi vuole fare impresa. Trattati come delinquenti o come evasori a prescindere, gettati nella giungla della burocrazia e del Grande Fratello fiscale, vessati da tasse troppo alte», l'intenzione è quella di restituire «dignità e libertà alle persone oneste che creano lavoro e ricchezza in Italia».
Certo, facendo qualche concessione all'ala più tradizionalista del partito la Meloni mette in guardia le imprese straniere, che non possono venire in Italia a beccarsi aiuti pubblici o fare profitti a sbafo («non permetteremo più il gioco dell'apri e chiudi fatto soprattutto dagli extracomunitari. Chi vuole lavorare da noi è il benvenuto, ma chi arriva da fuori dell'Ue, prima di aprire la serranda, dovrà presentare una fidejussione a garanzia del pagamento delle tasse»), strizza un occhio alle categorie storicamente difese da Fdi («deve finire l'odioso fenomeno dell'abusivismo e della concorrenza sleale nel commercio, nel turismo, nei servizi, nella manifattura») e volge lo sguardo più ad artigiani e partite Iva che alle grandi aziende e agli investitori esteri («le piccole e medie imprese di questa nazione rappresentano la sua ossatura economica e sono le custodi del Made in Italy, che è la cosa più preziosa che abbiamo»), pure fondamentali per creare sviluppo e crescita dell'economia.


RIVOLUZIONE LIBERALE Ma il programma abbozzato in questi giorni dalla Meloni è sicuramente la cosa più vicina a quella rivoluzione liberale che fino a un po' di tempo fa aveva caratterizzato l'offerta politica, con le comprensibili e inevitabili declinazioni dovute alla storia e all'identità dei singoli partiti, del centrodestra.
Proposte e principi offuscati da anni difficili, dove le crisi economiche, sociali, sanitarie e geopolitiche che hanno ridato forza ai sostenitori dell'interventismo assistenziale dello Stato, in cui sguazza da sempre la sinistra e in cui si è trovato benissimo a nuotare anche il Movimento Cinquestelle.
Per carità, anche la Meloni guarda con simpatia alle nazionalizzazioni di alcuni asset, rivendica la necessità della proprietà statale della rete internet, diffida della privatizzazione della ex Alitalia. Insomma, non è esattamente Ronald Reagan. Epperò il senso della rivoluzione copernicana nelle sue parole c'è. E la scelta di non puntare sulla promessa di aiuti, sconti o agevolazioni, che fra l'altro i conti pubblici in questa fase non permettono, ma di battere il ferro del rapporto tra Stato e imprese e di rilanciare con forza l'idea che la povertà si combatte creando ricchezza, non rimescolando quella esistente, non solo restituisce a tutto il centrodestra l'identità un po' sbiadita dal passare degli anni, ma segna anche una linea di demarcazione che può consentire agli elettori di fare una scelta di campo. Non sulla base di chi incarna meglio l'eredità di Draghi o su chi resta più a lungo in equilibrio al centro. E neanche su chi è più onesto o meno farabutto. Bensì sulla base di una visione del mondo. Da una parte il regno dei sussidi, del welfare senza confini, dei fondi pubblici a pioggia, dall'altra quello di chi si rimboccale maniche, di chi vuole produrre e guadagnare. Di chi trova dignitoso non aspettare la paghetta dello Stato a fine mese o farsi alzare lo stipendio dal Parlamento, ma conquistarsi ogni giorno con il lavoro la propria retribuzione, senza doverne cedere la metà all'Agenzia delle entrate e all'Inps. Intendiamoci, non è detto che la Meloni e il centrodestra abbiano ragione. Ma almeno c'è qualcosa di chiaro su cui scegliere. 

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