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Mario Draghi, come smonta le balle del Pd: delusione e imbarazzo a sinistra

Fausto Carioti
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Speravano in un Mario Draghi col dente avvelenato nei confronti del centrodestra. Sono rimasti delusi. Dal discorso del presidente del consiglio al Meeting di Rimini non è uscito nulla di utile per la campagna elettorale di Enrico Letta e del Pd, che sulla loro continuità con l'«agenda» del premier e sulla profezia della «bancarotta» italiana in caso di vittoria del centrodestra stanno puntando tutto. La confermala danno le chat del Nazareno, che spediscono sui telefonini le indicazioni sui temi su cui insistere: l'altro giorno, nel caso del video dello stupro di Piacenza rilanciato da Giorgia Meloni, era stato inviato l'ordine di colpire in massa, subito eseguito; al termine dell'intervento di Draghi, ieri, solo silenzio.
In quello che probabilmente sarà il suo ultimo discorso pubblico prima del voto (non ne sono previsti altri, solo gli impegni istituzionali legati al disbrigo degli «affari correnti»), il premier non regala nulla a nessuno e si mantiene felicemente al di sopra della melma elettorale. Si conferma però uno statista che ha a cuore l'Italia, e per questo ciò che dice dal palco riminese è agli antipodi della propaganda di Letta. La linea del capo dei democratici è nota, l'ha anche illustrata a tutto il mondo in inglese, spagnolo e francese. Insiste a dire che «del governo 2008-2011 facevano parte Berlusconi, Tremonti e Meloni. In tre anni l'Italia finì sull'orlo della bancarotta. Le destre che si presentano oggi sono le stesse». Il suo messaggio agli elettori italiani, alle cancellerie internazionali e agli investitori quindi è chiarissimo: se vincerà il centrodestra, l'Italia sarà un Paese da cui tenersi alla larga e che occorrerà circondare con un cordone sanitario.

 

 

 

IL FILO CON LA MELONI

Parole da anti-italiano, usate per spargere terrore. E soprattutto smentite da Draghi, che in patria e all'estero (per nostra fortuna) gode di una credibilità di gran lunga superiore. «Sono convinto che il prossimo governo, qualunque sia il suo colore politico», ha detto il premier, «riuscirà a superare quelle difficoltà che oggi appaiono insormontabili, come le abbiamo superate noi l'anno scorso. L'Italia ce la farà, anche questa volta». Un'apertura di credito che si sarebbe potuto risparmiare, se rispondesse al vero la tesi che lo vuole indignato col centrodestra per gli eventi che hanno portato alla fine del suo governo. Ma anche parole che avvalorano certi voci di palazzo Chigi e via della Scrofa, secondo le quali tra lui e la Meloni, probabile erede del suo ufficio a palazzo Chigi, c'è un robusto filo di dialogo sui dossier più importanti, incluso il nome del prossimo ministro dell'Economia, per rendere la transizione il più indolore possibile. Non dovuto certo a una simpatia politica, ma nell'interesse - appunto - della nazione. E chissà che non ne nasca qualcosa di buono per tutti e due: il «nonno al servizio delle istituzioni» resterà tale anche quando non sarà più capo del governo. Questo, ovviamente, non gli impedisce di dire ciò che pensa, soprattutto in materia di politica estera. Chi verrà dopo di lui, ha ammonito, dovrà avere presente che «protezionismo e isolazionismo non coincidono con il nostro interesse nazionale. Dalle illusioni autarchiche del secolo scorso alle pulsioni sovraniste che recentemente spingevano a lasciare l'euro, l'Italia non è mai stata forte quando ha deciso di fare da sola». E dunque il Paese dovrà restare «al centro dell'Unione Europea e ancorato al Patto Atlantico, ai valori di democrazia, libertà, progresso sociale e civile che sono nella storia della nostra repubblica». Nessuna sbandata filorussa o filocinese, insomma, e nessuna scelta solitaria, che peraltro farebbe finire l'Italia tra le fauci del dragone di Pechino. Un avvertimento alle frange del centrodestra che si professano ancora anti-europeiste ed equidistanti tra Russia e Stati Uniti, e che sembrano preoccupare la Meloni tanto quanto lui. Nella descrizione di Draghi, peraltro, la Ue non è affatto il paradiso dipinto dalla sinistra: ha regole di bilancio «poco credibili, poco trasparenti, che non permettono di utilizzare la politica di bilancio in modo efficace durante una recessione», e «non è chiaro come, con esse, si possa costruire una "sovranità europea", obiettivo oggi particolarmente importante». A Bruxelles ci sono molte cose da cambiare, e il suo successore farà bene a prendere appunti.

 

 

 

«ORGOGLIO ITALIANO»

Anche perché non c'è nessuna «agenda» che il premier gli passerà, e tantomeno c'è per chi vorrebbe sventolarla in campagna elettorale. È un altro degli slogan di Letta: «Continueremo con il programma di Draghi». Però il concupito ha già fatto sapere in privato che non intende essere tirato per la giacca, e lo ha ripetuto dinanzi ai ragazzi di Rimini: «Molte volte mi è stato chiesto di descrivere la mia "agenda". Ma io credo che saranno gli italiani, con il loro voto, a scegliere i loro rappresentanti perla prossima legislatura e quindi il programma del futuro esecutivo». Così nel Pd ieri s' è parlato d'altro, e Letta ha dovuto limitare la strumentalizzazione al minimo sindacale: «Ascolto il discorso di grande orgoglio italiano ed europeo di Draghi a Rimini. E poi penso che Salvini, Berlusconi e Conte si sono aggiunti il 20 luglio a Meloni per farlo cadere». Ma nemmeno Draghi gli offre appigli sul tema del "Draghicidio", e quanto all'«orgoglio italiano» la distanza tra i due non potrebbe essere più grande. 

 

 

 

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