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Giorgia Meloni, effetto Giannini sulla "Stampa": più a sinistra del "Manifesto"

Massimo Giannini

Giovanni Sallusti
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Questa è la storia di una metamorfosi. Come tutte le storie significative, ha una premessa. Che riportata qui, scusate, vale doppio. Ciascun direttore di giornale è libero - appunto - di imprimere alla sua creatura la linea editoriale che ritiene. Pare una banalità, è invece uno dei motivi per cui siamo diversi dalla Russia, o dalla Cina, o dall'Iran, e gradiremmo continuare ad esserlo. Refertata la premessa, tocca al "sugo" manzoniano della storia, tocca alla notizia. Che più o meno suona così: Massimo Giannini ha deciso di spostare La Stampa a sinistra del Manifesto. Libero lui di farlo, liberi noi di raccontarlo.
Stiamo infatti semplicemente alla cronaca, se diciamo che il (fu) quotidiano della borghesia sabauda e liberale (e perciò stesso nazionale) ha ormai da settimane deciso di tramutarsi nell'organo ufficiale dell'immaginaria Resistenza dura e pura contro l'ancor più immaginario neofascismo alle porte.

 

 

PSEUDO-OBIETTIVO - È un percorso dall'alfabeto di Luigi Einaudi, che scriveva su La Stampa nel primo Novecento, a quello di Michela Murgia, che ci scrive (o prova a farlo) oggi, e racconta molto dell'ideologia italiana contemporanea. Che come referente ha sempre il PC, non più inteso però come Partito Comunista, ma come Politicamente Corretto. Nessuno declina questa postura censoria, sommamente moralista e volutamente strabica, come Giannini e la sua (nuova) Stampa. A cominciare dall'ipocrisia della finta terzietà. Il direttore-agit prop si picca spesso di presentare il lavoro suo e dei suoi redattori come quello di "cronisti oggettivi". In questo senso, La Stampa rappresenta uno stadio ulteriore perfino rispetto a Repubblica, che in qualche modo dichiara ancora un'appartenenza: l'ideologia perfetta è quella che si spaccia cozzaglia di non notizie l'allarme contro la "marea nera".

È esattamente quanto sta facendo in questi giorni il quotidiano torinese, che dapprima ha documentato la turpe esistenza dell'esposizione "O Roma o morte. Un secolo dalla Marcia", con tanto di "medaglie del Ventennio, busti, sculture, armi" e addirittura "vestiti d'epoca", in pratica una cellula dell'eversione nera. Quindi, ha amplificato l'attualissimo allarme con una serie di commenti ed interviste. Spiccava ieri in veste d'editoriale quello di Marco Revelli, sociologo di rango, cofondatore di Lotta Continua in cui rimase fino allo scioglimento (quindi anche dopo l'omicidio del commissario Calabresi), autodichiarato marxista "operaista", opinionista del Manifesto prima di approdare alla sua evoluzione patinata ed estremista griffata Giannini, diciamo non esattamente un profilo cavouriano.

 

 

DISINFORMAZIONE - A suo dire, "la paccottiglia in vendita nelle botteghe di souvenir" emana "una carica di minaccia e di vendicativa aggressività, che ne fa di per sé un fatto politico". Siamo a un flagrante picco di disinformatja: nei giorni in cui si scopre che le nuove leve del Pd catapultate da Letta nelle liste elettorali negano il diritto a esistere di Israele e celebrano il totalitarismo sovietico, il "fatto politico" diventano gli accendini e le bottiglie con la pelata mussoliniana di cui qualche svalvolato fa incetta da sempre a Predappio. Ad aggravare lo straniamento del lettore, campeggia un'intervista a Roberto Jarach, presidente del Memoriale della Shoah, che viene sondato a tutta pagina sui rischi fascisti incarnati da Giorgia Meloni e Fratelli d'Italia (probabilmente il partito più filo-israeliano dell'arco costituzionale, en passant) senza che all'intervistatore vengano in mente il paragone di quel tal Raffaele La Regina tra la legittimità dello Stato ebraico e l'esistenza degli alieni, o l'intemerata di quella tal Rachele Scarpa contro "chi si ostina a parlare del diritto di Israele a difendersi". Assume allora i tratti della comicità involontaria l'intervento ospitato di fianco, vergato dal dirigente della sinistra dem Gianni Cuperlo (un menù molto variegato quello cucinato ieri da Giannini, come si conviene alla tradizione pluralista de La Stampa), che spronava "chi si candida" a "dimostrarsi antifascista". Ribaltamento della realtà, uso di parte dell'antifascismo, demonizzazione dell'avversario. Almeno Il Manifesto "quotidiano comunista" ce l'ha scritto sopra la testata. 

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