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Pd, ma quali progressisti? Dall'energia al lavoro: sono tornati sovietici

Enrico Letta

Enrico Paoli
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Appena può Enrico Letta, segretario del Pd in cerca del consenso perduto, parla di lavoro, occupazione, scuola ed energia. Constatando l'inesorabile emorragia nei sondaggi, destinata a trovare conferme nelle urne, il leader dei dem prova ad attaccarsi ai temi storici della sinistra, dai quali aveva preso le distanze, come ammette lui stesso. «Negli anni scorsi abbiamo perso il rapporto col mondo del #lavoro», scrive su Twitter, «il @pdnetwork ha sottovalutato le trasformazioni, la precarietà, la protezione per le persone. Nel nostro programma è tornato al centro: meno tasse sul lavoro, lotta al lavoro nero, basta finti stage». Al di là dei proclami elettorali messi in fila da Letta colpisce, e non poco, quel ricorso al concetto di sottovalutazione, che la dice lunga sullo scollamento del centrosinistra dalla realtà.

 

 

Ma non è questo il peggio. In un rigurgito di stalinismo, e non solo di statalismo, c'è chi invoca la nazionalizzazione delle imprese del settore dell'energia. Altro che libero mercato e concorrenza. A lanciare l'idea Monia Monni, assessore della Regione Toscana all'Ambiente, la quale sul proprio profilo Facebook ha illustrato le ragioni della sua proposta, sottolineando l'urgenza della conversione energetica. «Le 3 grandi aziende italiane dell'energia (Enel, Snam ed Eni) tornino ad essere totalmente pubbliche», scrive l'assessore del Pd. Per la Monni, la quale dovrebbe preoccuparsi più di caso Piombino e del dibatitto in corso sul rigassificore (Letta è a favore, come Calenda) l'unica strada per partorire un «poderoso investimento» nelle rinnovabili e arrivare all'autosufficienza e alla sostenibilità. Tipo Stalingrado, insomma. A contestare le logiche della Monni il deputato di Italia Viva, Gabriele Toccafondi, candidato nel collegio uninominale Firenze città metropolitana per il Terzo Polo. Il renziano ha messo in risalto il fatto che la proposta della Monni non fa altro che confermare la vera natura del Partito democratico: «Il Pd ha sposato l'agenda Bertinotti, altro che Draghi». L'esponente di Iv sottolinea come la strada indicata dal Pd «implicherebbe l'uscita dalla borsa di queste tre grandi aziende e un salasso micidiale per le esangui casse dello Stato». Non proprio il massimo, visto i tempi che corrono.

 

 

Se Letta sia d'accordo o meno con la deriva stalinista, e statalista, lo scopriremo solo vivendo. Nel frattempo il segretario prova a rispolverare tuta e blu e pugno chiuso, sostenendo come l'attacco della Fiom, secondo la quale il Pd è lontano dalle fabbriche e dai lavoratori, «è una provocazione» da prendere in considerazione. Il leader dei dem, parlando a Festival della Tv di Dogliani, evidenziando come «la campagna elettorale è fatta anche di momenti come questi», ha ribadito di voler dimostrare che «il Pd è il partito del lavoro. Il lavoro sarà la questione sui cui ritorneremo al centro dell'attenzione, anche di quei lavoratori che hanno lasciato il Pd negli anni scorsi». Ai quali Letta ha pure mandato a dire che il Job acts di Matteo Renzi è roba da rottamare.

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