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Regina Elisabetta, i compagni pazzi per la Corona

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"Contrordine, compagni. Noi grideremo eterna fedeltà alla monarchia, al potere di uno solo; ormai abbiamo rottamato Falce e Martello, crediamo in Corona e Trono". Deve essere passata questa velina ieri nelle redazioni dei quotidiani di sinistra per convincere giornalisti e firme illustri a celebrare in modo sperticato la Regina Elisabetta appena scomparsa. Lei, icona della Tradizione, modello di Nobiltà e non certo di Proletariato, di promozione fiera dell'identità nazionale e mica di globalismo senza confini, di potere sacrale al punto che avrebbe dovuto essere Dio in persona a salvarla, nonché vertice della Famiglia Reale, curiosamente si trovava a essere omaggiata dai quotidiani progressisti che di solito esprimono ripugnanza per tutto ciò che ha che fare con Dio, Patria e Famiglia, con l'ingombrante Tradizione, con l'idea di un individuo dotato di un'eccellenza ereditaria e di sangue, visione che confligge col modello di una società di uguali.

 


 

DIO, REGNO E FAMIGLIA Ma tant' è. Miracoli della Regina Elisabetta, la sovrana che riuscì a farsi amare pure da coloro che odiano i sovranisti (e lei, in senso letterale, era la sovranista per antonomasia). Su La Stampa Bill Emmott inneggiava al «secolo lungo di Elisabetta», colei che «ha rappresentato la continuità con il passato glorioso dell'impero britannico» (ma non era quell'impero definito in altre occasioni razzista e colonialista?). Mentre nel pezzo della scrittrice Simonetta Agnello Hornby, si rendeva merito alla sua «fedeltà a Regno, popolo e famiglia» (più o meno le stesse parole d'ordine per cui viene disprezzata sul medesimo giornale la Meloni). Su Repubblica Gianni Riotta elogiava della sovrana il suo essere «icona pop senza tempo» (pop o populista?), mentre Enrico Franceschini la descriveva come «lo specchio in cui si riflettevano i suoi compatrioti». Bizzarramente poche pagine più avanti il direttore Molinari rimproverava però alla Meloni proprio il «sovranismo», non apprezzando troppo il suo obiettivo di «dare al Paese un governo che crede nell'identità nazionale» (evidentemente, se la Meloni fosse stata una regina e si fosse chiamata Giorgia I, sarebbe stata lodata). Sul Corriere della Sera invece Beppe Severgnini si spingeva a definire Elisabetta «la sovrana di tutti noi» e ne glorificava aspetti che, attribuiti ad altri personaggi, avrebbe invece considerato deteriori, come il suo «sembrare, talvolta, anacronistica». E perfino l'ex premier britannico laburista Tony Blair ci teneva a tributare il nazionalismo della regina in quanto «rappresentava tutti i valori per cui siamo orgogliosi di essere "British"». Tutti convertiti sulla via dell'identità patriottica, e in nome di Elisabetta. Certo, nessuno di costoro ricordava però che Elisabetta II non si era mai detta ostile alla Brexit, tanto che il giorno dopo l'uscita della Gran Bretagna dall'Ue aveva commentato, con regale ironia, «Sono ancora viva». E nessuno citava la sua posizione mai contraria al referendum di indipendenza della Scozia, a condizione che, attraverso un compromesso, Edimburgo non si scindesse dalla corona britannica. In quell'occasione la regina si era limitata a dire: «Spero che tutti riflettano con molta attenzione sul loro futuro». Sui quotidiani di sinistra si preferiva un ricordo retorico della sovrana declinando in chiave sentimentale il suo patriottismo. E, oltre a ricorrere a una visione favolistica della Monarchia, si travisava la figura di Elisabetta, la si piegava a uso e consumo del politicamente corretto, per renderla compatibile coi principi del buonismo à la page

 

LA REGINA LAVAPIATTI - Ecco che allora su Repubblica si proponeva il Mito dell'Elisabetta che non disdegnava di sporcarsi le mani e occuparsi delle stoviglie. Nel titolo dell'intervista al suo segretario Richard Winston si leggeva che alla regina «piaceva lavare i piatti». Ma, per non farla sembrare donna troppo vecchio stampo, si aggiungeva che lei chiedeva al suo segretario di asciugarli, i piatti. Per la parità dei sessi, ovviamente. Su La Stampa Elena Loewenthal la ritraeva come un punto di riferimento femminista, essendo «una donna unica» che «ha tenuto testa a tutti» «in un mondo dominato dai maschi» e che aveva reso i maschi subalterni visto che «re e principi, presidenti e tiranni» si mettevano «a capo chino davanti a lei». Il più grosso malinteso lo generava però Luigi Di Maio che non deve conoscere a menadito la storia della regina, se è vero che la presentava come colei a cui va riconosciuta «la capacità di costruire l'Europa insieme a tanti altri capi di Stato». Non solo europeista, secondo Giggino, ma pure donna vissuta per almeno tre secoli dato che, a suo dire, «la regina Elisabetta è stata un'icona per decine di generazioni». Decine eh! A proposito di strafalcioni, colpiva la gaffe in prima pagina de La Stampa, ove si leggeva per due volte che Elisabetta era finita «sul trono per caso dopo l'abdicazione dello zio Edoardo VII». Peccato fosse Edoardo VIII, essendo Edoardo VII il nonno dell'altro e morto nel lontano 1910... Dio salvi la regina dai fraintendimenti!

 

 

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