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Giorgia Meloni, un clamoroso scambio di sms: "Beh, se lo vuole scrivere..."

Giorgia Meloni

Renato Farina
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Gentile Giorgia Meloni, lei sarà la prima donna italiana ad essere presidente del Consiglio. Lo sa, vero?
(Nessuna risposta, la messaggistica WhatsApp non dà segno di vita).
Ci riprovo: io non la accosterei né a Margareth Thatcher, troppo poco sociale, d'accordo?
(Attesa vana, idem).
Insisto: ma neanche a Indira Gandhi, non veniva da un quartiere di periferia, era l'unica figlia del premier indiano Nehru.
(Zero, tutto morto).
Gioco la carta poco professionale, faccio leva sulla curiosità femminile: avrei in mente un'altra donna, la paragonerei a...
(Eccola!) "A?".
Se dico che potrà essere la nostra Golda Meir, e non alludo all'aspetto fisico, aveva 70 anni quando è diventata nel 1969 la prima donna premier di Israele...?
"No di certo, è fica!".
Ecco, sarà la nostra Golda Meir. Le chiedo: posso usare questa frase nell'articolo?
"Beh, se lo vuole scrivere, magari le do una risposta più istituzionale... (emoij di faccia che ride)".
Concordo: tolgo "fica" e lo metto in modo simpatico.

 

 

Non ci sono riuscito, sono giornalista, ho dei doveri, non posso falsificarla: lei è così. Totale. Ma certo che sarà premier e sarà la nostra Golda Meir.
Patriottismo, identità, purezza, educazione al coraggio, appartenenza, comunità, visione. Golda Meir è stata tutto questo. Ma quelle appena enunciate sono le parole-architravi - testualissime - della proposta politica, ma che trascendono la politica, la sovrastano dandole luce, del libro in cui la vincitrice di queste elezioni si è raccontata: Io sono Giorgia. Le mie radici, le mie idee. È un po' tanto presto per dire se traccerà un segno anche solo la metà profondo nel destino del nostro Paese rispetto a quello che Golda ha dato allo Stato e al popolo ebraico. Andrebbe bene anche se ci riuscisse al venti per cento. La domanda è: glielo lasceranno fare?
Arriverà una sorta di veto da potenze estranee al volere degli italiani?

Impossibile. Non esiste in natura. Girare all'indietro le lancette della storia, o più modestamente della cronaca, sarebbe vilipendio della democrazia, abrogazione della realtà nelle sue evidenze plastiche. Qualcosa che neanche un mago Merlino ingaggiato dai miliardari di Davos riuscirebbe a spedire nel buco nero del tempo.

 

FACCIA A FACCIA - Alludo al momento in cui Giorgia Meloni è diventata la prima donna presidente del Consiglio, ed è accaduto alle 19 e 57 del 12 settembre 2022, senza offesa alle prerogative del Capo dello Stato, ci mancherebbe. In America lo chiamano momentum, gli antichi greci parlavano di kairós, l'attimo imprevedibile in cui si palesa la verità delle cose. È stato durante il faccia-a-faccia con Enrico Letta trasmesso sulla tivù del Corriere della Sera. Giorgia portava con sé una sorta di grazia di stato, non c'era distanza in lei tra quello che ha sperimentato nella vita, la sua identità profonda e la visione che proponeva dicendo ma soprattutto essendo sé stessa. Non è stata questione di una superiorità delle opinioni, neppure a maggior caratura in scienza della politica. Sì, forse anche per questo. Ma fin lì eravamo nel territorio delle cose contingenti. Meloni ha dato un giro di pista al suo preteso contendente quando si è parlato di "amore". Ehi, non siamo arrivati al capitolo romantico della campagna elettorale, ma di ciò che costituisce il senso della vita. A proposito di bambini, e della loro sofferenza da accarezzare, Giorgia ha parlato di sé stessa, della sua esperienza di bimba cresciuta solo dalla mamma, della sua mancanza del papà.

 

 

 

Non è omofobia negare l'adozione a coppie omosessuali, ma dovere dello Stato è fare il massimo per un bambino già sfortunato per aver perso i genitori: e il massimo è che sia accolto da un papà e da una mamma. Enrico ha balbettato formule ideologiche, in cui si percepiva l'astrazione; Giorgia ha ricordato che cosa l'ha mossa verso la politica: curare le ferite degli altri, essere madre e tutto il resto. I cittadini elettori si sono riconosciuti non tanto in un programma, ma nella tensione esistenziale, nel Dna morale, di Re Giorgia, altro che Re Giorgio. Bisognerebbe dire Regina "Golda" Meloni, onorandone il suo essere donna, madre, italiana e cristiana. Ci è scappato il Re, per assonanza con l'appellativo dato al presidente Napolitano, causa il travalicare dei suoi poteri quirinalizi.

Un epiteto usurpato - senza voler mancare di rispetto a un vecchio signore - perché l'antico comunista si comportò da vassallo, da viceré del Perù, per conto dell'imperatore forestiero.

LA SCELTA - Se il voto fosse coinciso semplicemente con un programma, una ricetta super-visionata da Bruxelles, allora il suo realizzatore potrebbe essere tranquillamente fungibile, uno vale uno eccetera, meglio allora trovarne uno che somigli a una minestrina scondita, un tipo su misura per indossare la divisa da bravo scolaro franco-tedesco cucita da Ursula von der Leyen e da potentati molto più su, ideologicamente e finanziariamente, della presidente della Commissione Ue. Gli italiani invece hanno scelto Giorgia - e il centrodestra con lei - perché questa signora di 46 anni si ricorda che cosa vuol dire Patria, povertà, famiglia, studiare e lavorare, appartenere a una tradizione. La propaganda del nemico (massì, quando si vuol sottrarre l'anima a un popolo si è nemici, punto e basta) la dipinge astrusamente come post-fascista la cui guida trasformerebbe l'Italia in uno Stato di serie B. Più in serie B di così? È difficile. I nostri inchini al sultano turco Erdogan e all'autocrate azero Aliev, la nostra totale assenza in quell'appendice dell'Italia che è stata ed è la Libia, attestano la rinuncia alla qualità precipua dell'atlantismo dei nostri leader politici da De Gasperi a Berlusconi- includendo Andreotti, Cossiga e Craxi - che è stata la memoria dell'interesse nazionale.

Golda Meir ha frapposto il suo corpo di vecchia e la sua fragranza ideale nella difesa strenua della sua gente. A 23 anni sulla nave Pocahontas dall'America, dove si era rifugiata in fuga da Kiev, approdò a Napoli con l'uomo della sua vita. Da Napoli - era il 1921 - in treno, camion, mezzi di fortuna, si immerse nella sua identità ebraica in un kibbutz. Montanelli scrisse di Golda: «I suoi artigli erano graffianti, ma non lo sembravano perché erano retrattili. Golda era materna, l'indulgenza ruvida ma pronta, l'umorismo massiccio, la risata gorgogliante e contagiosa. Non grida non impreca, non scaglia anatemi. Si siede sull'argine del fiume e aspetta che il cadavere del nemico passi. E passa sempre». Auguri.

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