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Luigi Di Maio, il contrappasso: mandato a casa da un grillino vero

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Francesco Specchia
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Di Luigi Di Maio - paradossalmente il più grillino di tutti- bisogna apprezzare lo zelo nel cronoprogramma. Prima, entrando in Parlamento, ha abolito la povertà (più che altro la sua); e dopo, trombato alle urne, ha rispettato perfettamente il vincolo dei due mandati. Di Maio ha seguito alla lettera i cardini della piattaforma dei Cinque Stelle. E l'ha fatto, sebbene non fosse più nei Cinque Stelle. Il massimo. Riflesso pavloviano, e caso unico nell'emiciclo. Il nostro ministro degli Esteri ha raggranellato per il suo Impegno Civico la cifra miserrima dello 0,6%, risucchiato, da un lato dal ciclone Meloni, e dall'altro dal tifone Conte; ai quali Di Maio, peraltro, correttamente fa «i complimenti», perché «non ci sono scuse da accampare, abbiamo perso. Gli italiani non hanno considerato abbastanza maturo il nostro progetto politico». 

Più che una questione di maturità, è una questione di culo. Prima o poi il vento disegna arabeschi avversi. E, diciamoci la verità: Giggino, sempre con quel suo sorriso moroteo, l'aria affranta e l'outfit da segretario comunale aveva raccolto più di quanto avesse seminato. Vicepresidente della Camera under 28, vicepremier, ministro del Lavoro e due volte ministro degli Esteri (in questa legislatura), capo assoluto del Movimento quando il Movimento contava ancora, apprezzate capacità di mediazione nonché di confondersi con le mura, Di Maio, era stato preso dall'ebrezza del potere. Era arrivato a pensare che la sua irresistibile ascesa fosse altro rispetto all'ascesa del grillismo.

 

Sognava, Luigi, con la sua scissioncina, di rendere "irrilevante" Conte e invece Conte senza Di Maio è risorto; e dei "dimaiani" è rimasto solo l'hightlander Tabacci, tutt' un'altra classe, un'altra umiltà e un'altra storia. Ecco; ciò che manca di Di Maio, è la storia.

Di Maio cerca di cancellare la sua, da liceale bibitaro al San Paolo senz' arte né parte a favore degli ultimi dieci anni da statista irreprensibile, un Alessandro Magno della politica italiana. Ma, alla fine, la sua storia quella è. Come molti colleghi, Di Maio è figlio dei fenomeni del Movimento, meteore tornate nelle catacombe della società civile scaduto il sogno parlamentare. Perfino il "piano B" di Giggino, quello di rimanere fermo un giro, aspettare l'implosione grillina e farsi erede di Draghi (sulla base di che? Competenza, standing internazionale? Curriculum?) s' è rivelato mera astrazione. Di Maio è stato uno di quei generali che declamano straordinari strategie ma poi si girano e ritrovano senza battaglione.

 

Ha difeso il reddito di cittadinanza, evocato l'agenda Draghi, assicurato che sarebbe stato «la rivelazione di queste elezioni», siglato un accordo con il redivivo Psdi e schierato sul palco una sagoma di cartone di Salvini per denunciare che aveva rifiutato il confronto. Alla fine, a fotterlo, nel suo collegio napoletano di Fuorigrotta, è stato uno dei suoi presunti fedelissimi l'ex ministro dell'Ambiente, Costa che s' è schierato con Conte. Si congeda ora con un «Si impara a rialzarsi». E non dubitiamo possa farlo. Per ora è in cerca di un lavoro. Epperò, di Di Maio, al netto delle cose buone (le ha fatte), si ricordano solo: lo pseudodossier sbandierato ad arte, da capo delle Farnesina, in campagna elettorale contro la destra; e la furia nel chiedere l'impeachment di Mattarella; e il viaggio in auto con Di Battista, per unirsi ai gilet gialli; e il volto in assetto luciferino mentre dal balcone, che grida «Abbiamo abolito la povertà!». Che, poi, alla fine - dice Osho - abbiamo abolito Di Maio...

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