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Beppe Sala, a cosa punta davvero: il piano è un terremoto politico

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Pietro Senaldi
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«Fra pochi mesi avremo il nono segretario del Pd in quindici anni. Una progressione che può insidiare il record di avvicendamento di allenatori della mia Inter». Così il sindaco di Milano, Beppe Sala, nel tempo più volte indicato come potenziale (quanto improbabile) leader dei dem, ha commentato le dimissioni di Letta e il conseguente congresso prossimo venturo del partito. Per completezza avrebbe anche potuto aggiungere: ma noi ex diessini in questi tre lustri, a differenza della Beneamata, non abbiamo neppure vinto uno scudetto sul campo, se la metafora calcistica è traducibile in politica con il concetto di governare dopo aver trionfato alle elezioni. La frase però l'avrebbe portato troppo oltre la critica scontata e innocua alla quale è abituato. E poi, sarebbe stata una sorta di autogol. Il sindaco infatti non parla mai per caso e la battuta, non originale, è suonata alle orecchie di chi lo conosce bene come un'autocandidatura felpata. L'ha buttata lì, senza dirla chiaramente, perché altrimenti non si sarebbe distinto nel coro degli aspiranti segretari, capeggiato dall'ingenua ex ministra Paola De Micheli, che in maniera naif ha detto semplicemente: «Ho esperienza e voglia di provarci».

 

 


POST-MARXISTA
Più arzigogolato e mentale, da post-marxista qual è, l'ex presidente del partito, Matteo Orfini, che si candida premettendo che «il Pd finora ha pensato e parlato unicamente di alleanze e non di politica, diventando inevitabilmente una forza solo di potere e ora invece è tempo di ridefinire il senso e la missione, in modo che i cambiamenti non siano solo di facciata». E per questo, chiosa, «se nessun altro si fa carico di questa istanza, ci sono io». Il buffo è che sono fin troppi a farsene carico. All'inizio pareva che il predestinato fosse il presidente dell'Emilia-Romagna, Stefano Bonaccini, che però, come tutti quelli partiti troppo presto rischia di essersi bruciato prima dello start. A beffarlo potrebbe essere proprio la sua vice, Elly Schlein, donna, in quota lgbt, di sinistra ma super americana, abortista e vagamente allergica alla famiglia, in pratica l'anti-Meloni. Ha un piccolo difetto, non ha la tessera del partito ma queste sono cose che, a volerlo, si aggiustano in un minuto. Il punto è che nessuno la vuole, anche se è impossibile dirlo perché si verrebbe subito accusati di sessismo, benché le ragioni siano invece squisitamente politiche. Poi ci sono i sindaci, De Caro da Bari, Ricci da Pesaro e Nardella da Firenze, tutti affetti da quella strana sindrome che coglie gli amministratori dem, attratti inesorabilmente dal venticello romano che li porta a trascorrere nella capitale quasi più tempo che nel proprio municipio. Un ponentino che si fa sentire anche a Milano, e forse dà un po' alla testa.


MAI IN PERIFERIA
La sensazione infatti è che Sala fuori dalla cerchia dei Navigli non vada lontano, tant' è che è raro vederlo perfino nelle periferie del capoluogo lombardo, e che un partito che si è mangiato Veltroni, Bersani, Letta, Zingaretti e Renzi, ci impieghi due mesi scarsi a fare un sol boccone del sindaco testimonial, amante di biciclette, sci e aperitivi. Comunque andrà al prossimo giro, fissato per gennaio 2023, la cosa certa è che conterà poco. È statisticamente sicuro infatti che chi la spunterà non sarà il leader che affronterà il centrodestra, fra cinque anni o anche meno. Il segretario del Pd è un lavoro molto ambito, ma a termine, con l'unico vantaggio che può portare a incarichi lucrosi, dalle conferenze super pagate di Renzi al ruolo alla Fao di Martina, ai ministeri di Franceschini fino ai seggi garantiti di Fassino e Zingaretti. Su una cosa ha ragione Orfini: cambiare la testa tenendo uguale il corpo non porta da nessuna parte, soprattutto se, come sempre accaduto finora, una gamba spinge in una direzione e l'altra in quella opposta, un occhio guarda a M5S e l'altro a Macron, il cuore batte per Fratoianni e il cervello porta a Calenda e Renzi.

 

 


COLPEVOLE
La verità è che Letta se ne va ma la sua sola colpa è aver accettato l'incarico: Bettini, Franceschini e Orlando lo avevano richiamato da Parigi perché serviva un martire al quale intestare la sconfitta inevitabile, un volto moderato, una pelle da foderare, in grado di coprire candidature ben più rosse di quanto non apparisse dall'involucro. Il povero Enrico all'inizio l'ha presa sul serio, ha pensato di contare qualcosa e si è accordato con Calenda, poi la base gli ha imposto Fratoianni e i Verdi e il suo campo, già ristretto causa addio con M5S, è sparito. A questo punto il destino del partito pare segnato. Se sarà scelto un segretario che riporti il Pd a sinistra, si farà la pace con i grillini e una parte dei dem mollerà la ditta per riappacificarsi con Renzi, che già ha ufficialmente dato per morto il partito e ha fatto sapere di attendere i naufraghi sulla riva del fiume. Se viceversa la spunteranno De Micheli, Bonaccini o simili, assisteremo all'ennesima scissione a sinistra di quel che fu il più grande partito comunista d'Europa e che ora si dirige a pezzettini nella sua nuova casa, una dépendance del Movimento Cinque Stelle. Quanto al Beppe milanese, gli conviene accomodarsi in Sala d'aspetto e gustarsi l'ennesimo tiro al piccione. 

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