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Alessandro Campi, soffiata sulla Meloni: "A quale partito può dar vita"

Alessandro Campi

Fausto Carioti
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Il 25 settembre hanno votato per il centrodestra 12,3 milioni di italiani, appena 150mila in più del 2018. La rivoluzione è stata in tutto il resto: l'affluenza scesa di nove punti, il crollo dei Cinque Stelle e il forte rimescolamento di voti all'interno della coalizione, in favore dei Fratelli d'Italia. A sinistra questa valanga di suffragi per Fdi è stata subito etichettata come «voto di protesta», non come un mandato per governare. Una classificazione che il politologo Alessandro Campi, che da anni studia la destra europea e assieme a Sergio Rizzo ha appena scritto il libro "L'ombra lunga del fascismo", non condivide. «Il voto di protesta stavolta si è interamente rifugiato nell'astensionismo, che non a caso ha raggiunto vette molte alte. Quello ai partiti è stato, diversamente motivato, un voto politico».

Voto politico anche quello per i Cinque Stelle?
«Sì. Chi stavolta ha scelto Conte non lo ha fatto da posizioni anti -sistema e anti -casta, come era stato nel 2018. Ha invece fatto propria una precisa visione della politica, basata sull'aumento indefinito della spesa pubblica e dell'assistenzialismo».

Un voto politico per governare, vittoria netta: tutto bene per il centrodestra?
«La nota negativa è che ci si è limitati a redistribuire i voti all'interno della coalizione, senza ampliare i propri confini elettorali. La vittoria è stata in gran parte dovuta al buon uso della legge elettorale. Alla forza propria come alleanza si sono aggiunti gli errori degli avversari, che sono andati in ordine sparso. Ciò significa che non bisogna cullarsi troppo sul risultato: storico per la vittoria della destra meloniana, più che perla massa dei consensi ottenuta».

Lei dedica un capitolo del suo ultimo libro al «fascismo eterno» teorizzato da Umberto Eco. Teoria che ora è usata per delegittimare Giorgia Meloni. Quanto c'è di fascista nella vittoria del partito della fiamma?
«Il "fascismo eterno" è una brillante invenzione di Eco, carica di implicazioni politico -propagandistiche, ma priva di sostanza storica. Serve solo ad agitare una minaccia ritenuta permanente e a serrare i ranghi per contrastarla. Senza nemmeno rendersi conto che un fascismo immortale, destinato a ricomparire in forme sempre nuove, è per definizione un ne mico invincibile. Non a caso è un'idea che piaceva molto ai seguaci di Evola: il fascismo come idea originaria che viene dalla notte dei tempi e vivrà per sempre».

 



 

Ma ha ancora un senso la fiamma, legata all'identità missina, nel simbolo di un partito votato da milioni di italiani lontani da quella tradizione?
«Prima o poi bisognerà porsi il problema di togliere la fiamma dal simbolo, specie se il grande consenso ottenuto stavolta da Fratelli d'Italia dovesse consolidarsi. La fiamma non rimanda al fascismo storico, ma certamente richiama il neofascismo: vale a dire coloro che hanno fatto politica nei ranghi del Msi provenendo quasi tutti dall'esperienza della repubblica di Salò. Con questa memoria Giorgia Meloni e l'attuale gruppo dirigente di Fdi hanno poco o nulla a che fare, anche se il sentimentalismo li porta a considerare intoccabile quel simbolo. Che certo un partito non può cambiare durante la campagna elettorale solo perché lo chiedono gli avversari. Il tempo aggiusterà le cose».

La Meloni, da sola, ha preso più voti di Salvini e Berlusconi. Quanto è alto il rischio che i due provino a recuperare consensi smarcandosi dalle scelte della futura premier?
«Ammettiamo che Berlusconi e Salvini si sgancino da Giorgia Meloni: per fare cosa, l'ennesimo governo tecnico o di pseudo unità nazionale col Pd e magari coi grillini? Visti i numeri che ci sono in parlamento, il centrodestra è, per così dire, costretto a stare unito al governo. Certo, Salvini in questo momento è un alleato in cerca di rivincita. È inoltre un situazionista politico, come tale difficile da prevedere. Ma sbaglia se crede che il calo della Lega sia dipeso dal sostegno dato al governo Draghi e dalla scelta meloniana di stare sempre all'opposizione».

Eppure è quello che dentro la Lega dicono un po' tutti. Non è così?
«No. Il travaso lento e inarrestabile dei voti di Salvini verso Fratelli d'Italia è cominciato già all'epoca del governo gialloverde, perché i suoi elettori non hanno gradito la scelta di rompere col centrodestra per allearsi coi grillini. Ed ha raggiunto il punto massimo all'epoca del Conte II, proprio quando Lega e Fdi stavano entrambi fuori dal governo».

«Dal populismo al pragmatismo: s'annuncia un cambiamento interessante», ha scritto lei, sul Messaggero, a proposito della futura premier. Che Meloni si attende?
«Al governo non si possono utilizzare gli stessi toni barricadieri di quando si sta all'opposizione. Non è questione di piegarsi ai poteri forti, ma di realismo, senso istituzionale e serietà politica. La leader di Fdi sa inoltre che tutti l'aspettano al varco, inattesa del primo passo falso. La scelta della prudenza - nelle parole, nei comportamenti- è la migliore che possa fare».

 

 

A proposito di realismo: la Meloni vuole mettere figure tecniche di alto profilo all'Economia e in altri ministeri chiave. Gli alleati non sembrano gradire.
«Un governo di alto profilo non è detto che debba comprendere per forza figure tecniche neutrali o super partes. Non è detto nemmeno che i tecnici non possano avere, oltre a una dichiarata competenza, anche una caratterizzazione o sensibilità politica. Si dovrebbero scegliere, per così dire, tecnici di parte: competenti, ma culturalmente vicini al centrodestra. Un governo politico, dunque legittimato dal voto popolare, non può avere bisogno di garanti o mallevadori esterni».

A questo punto è inevitabile il ritorno della Lega alla dimensione nordista?
«Salvini ha troppo forzato i tratti originari della Lega. La sua scelta di darsi un profilo nazionale e non più territoriale non era sbagliata, ma prevedeva un'elaborazione strategico -culturale che non c'è stata. La Lega poteva ambire a diventare un grande partito conservatore di massa, però il suo leader non ha avuto costanza, ha ceduto al movimentismo, ha puntato tutto sulla comunicazione digitale e sulla personalizzazione spinta. Finita la luna di miele con l'opinione pubblica - un mostro vorace di novità sempre più nuove - si è ritrovato al punto di partenza. Adesso quel progetto può provare a realizzarlo Giorgia Meloni».

A sinistra stanno peggio. Anche tra i dem, c'è chi propone di sciogliere il Pd.
«Il Partito democratico è in crisi strutturale, vittima di quella liquidità che è diventata la sua ideologia. Non ha più insediamenti territoriali stabili, la sua immagine è quella di un partito di potere attento soprattutto ai rapporti con l'establishment. Ha perso il contatto - emotivo prima che politico coi ceti popolari e lavorativi. Non puoi parlare di maternità surrogata ad uno che non sa quanto prenderà di pensione dopo una vita di lavoro! Culturalmente si è messo a inseguire tutte le fole della post -modernità. Aggiungiamo che quella italiana è l'unica sinistra continentale che predica un europeismo così intransigente e dogmatico».

Enrico Letta pagherà per tutti, ma è al contempo colpevole e capro espiatorio.
«Ricordiamoci perché era stato scelto: doveva essere paciere e mediatore tra le correnti. Non aveva alcuna forza propria. Non stupisce che alla prima difficoltà gli sia stato dato il benservito, mascherato da dimissioni volontarie».

Mettere un altro al suo posto servirà a qualcosa?
«Dubito che una simile crisi possa essere risolta con l'ennesimo cambio di segretario. Scelto peraltro con modalità che ricordano quelle dei talent show televisivi: tanti auto -candidati in lizza, ognuno dei quali convinto di essere un fenomeno». 

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