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Pd, se per i compagni anche la guerra è voto di scambio

Enrico Letta

Iuri Maria Prado
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Non ci voleva molto a prevedere, e infatti anche qui l'avevamo ben previsto, che la buccia atlantista del Pd si sarebbe crepata abbastanza presto facendo fuoriuscire la polpa in suppurazione pacifista che premeva lì sotto. I segni (anche se non servivano) c'erano da mesi, e a darli era innanzitutto il progressista in chief, Enrico Letta, quando pubblicava le vignette con Boris Johnson raffigurato come un pagliaccio e se ne usciva con sane bellurie arcobalen-parrocchiali sulla pace mica tanto buona che tuttavia sarebbe stata meglio di una guerra in ogni caso cattiva: e di lì in poi alla disperata ricerca dell'occasione buona per togliersi dagli impicci e dare rappresentanza all'essenza anti-occidentale, anti-americana e anti-liberale che impasta la realtà effettiva e attuale di quel partito.

Quella che fioriva nella verità del bouquet di candidature pro Hamas e nella moltiplicazione dei "sì però", dei "sì ma anche" del dopo-batosta, coi plenipotenziari alla direzione Pd dell'altro giorno a lasciare intendere che a ben guardare la solidarietà a Kiev non valeva un collegio: e che è ora di rimediare secondo l'insegnamento del punto di riferimento fortissimo di tutti i voti di scambio. Sulla guerra e sulla pace ogni opinione è legittima. Ma proprio perché si tratta di vita e di morte, di oppressione e di libertà, è imperdonabile farne materia di convenienza stagionale. E pietà per il solito osservatore di sinistra che capisce solo ora quanto fossero falsi e transigibili i principii sventolati dal balcone progressista in favore di una resistenza meno maneggevole rispetto a quella che assicura cattedre e stipendi qui da noi.

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