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Liliana Segre, se anche lei chiede la fine dell'odio

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Giovanni Sallusti
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Hanno passato le ore precedenti a spendere oscenamente il suo nome nel gioco taroccato della contrapposizione: lei e lui, la testimone vivente della barbarie e il presunto erede di barbari, Liliana Segre e Ignazio La Russa. Viceversa, ieri ogni orecchio non deviato ideologicamente non poteva che registrare una consonanza inedita e rigenerante.

 

La senatrice Liliana Segre, certo con la propria sensibilità culturale, ancorata alla propria visione del mondo, rivendicando più che giustamente l'ineludibilità della propria terribile esperienza, è approdata in un porto assai simile a quello del neopresidente. Anche il suo discorso, forse soprattutto il suo discorso, ha spronato l'aula e il Paese alla cucitura delle ferite passate e all'unità salda di fronte alle emergenze presenti. A partire dall'appello inequivocabile a interpretare «una politica "alta" e nobile, che senza nulla togliere alla fermezza dei diversi convincimenti, dia prova di rispetto per gli avversari, si apra sinceramente all'ascolto, si esprima con gentilezza, perfino con mitezza».

Nessuna crociata delegittimante, all'opposto la consapevolezza di appartenere a una storia, e a un modello di civiltà comune: «Le grandi democrazie mature dimostrano di essere tali se, al di sopra delle divisioni partitiche, sanno ritrovarsi unite in un nucleo essenziale di valori condivisi, di istituzioni rispettate, di emblemi riconosciuti». Soprattutto, c'è stato l'invito all'«assunzione di una comune responsabilità» contro «la diffusione del linguaggio dell'odio e l'imbarbarimento del dibattito pubblico», e qui La Russa è stato visto applaudire vigorosamente, dando sponda fisica alla coesione contro gli odiatori (che non stanno tutti a destra, anzi).

 

Infine, al culmine di un climax ascendente, l'appello conclusivo: «Auspico che tutto il Parlamento, con unità di intenti, sappia mettere in campo in collaborazione col governo un impegno straordinario e urgentissimo per rispondere al grido di dolore che giunge da tante famiglie e da tante imprese». «Unità d'intenti» per «rispondere al grido di dolore» del Paese reale: è stata letterale, Liliana Segre, nella sua esortazione alla concordia nazionale. Per cui non fidatevi, oggi, dei giornaloni che citeranno (ancora) stumentalmente il 25 aprile, Matteotti, la marcia su Roma. Certo che la Segre li ha nominati, e peraltro su questi snodi si può benissimo costruire una memoria condivisa, anzi perfino si deve (il problema semmai è stato il loro sequestro pluridecennale da parte del pensiero di sinistra). Li ha nominati all'interno di un discorso essenziale e molto più che di rito, che indicava chiaramente la stella polare della Terza Repubblica: pacificazione e riconoscimento reciproco. Se ne facciano una ragione, certi adulatori interessati.

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