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Antifascisti contro Giorgia Meloni? Temono di restare disoccupati...

Giovanni Sallusti
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Comprendiamo il tormento dei (fu) giornaloni italici, la crisi d'identità che li sta travolgendo. L'unica certezza residua, nelle redazioni che conta(va)no, era il mito fondativo dell'antifascismo. E questa donna che ha vinto le elezioni (come si è permessa, senza la tessera del Pd in tasca?) gliel'ha sgonfiato in una manciata di giorni, senza fuochi d'artificio, con esternazioni razionali, sane, normali, essendo la normalità intelligente un supremo valore conservatore. Giorgia Meloni, ricordando il bestiale rastrellamento del ghetto capitolino, ha invitato a vivificare la memoria della «vile e disumana deportazione di ebrei romani per mano della furia nazifascista». 

 

Voi direte, a quel punto, di fronte all'oggettività della lettera, l'avranno smessa. Si vede che, per vostra fortuna, li conoscete poco. Non solo la tranciante dichiarazione di Meloni non ha smontato il circo dell'antifascismo postumo, ma gli ha paradossalmente dato nuova linfa. È infatti scattata la gara a precisare, per sostenere l'assurdo a testate unificate: una condanna integrale della barbarie nazifascista è un evidente indizio di retaggi nazifascisti. 

LESO SOROS
Su Repubblica si è esercitato un vero e proprio professionista del ramo, uno che se li togli l'antifascismo vede barcollare pericolosamente anche lo stipendio: Paolo Berizzi. «A molti sono venute in mente le tante uscite dove la premier in pectore ha attaccato George Soros, il finanziere ungherese di origini ebraiche sfuggito alla Shoah». Ovvero: se critico l'agenda geopolitica di un singolo sopravvissuto all'Olocausto, significa che stavo con i suoi carnefici e che il mio partito è una sentina di Ss. Puro dadaismo giornalistico. Ma è inutile tentare di reperire un grammo di logica, se anche uno pensante come Emanuele Fiano si lascia coinvolgere nel giochino, sempre su Repubblica: «Il fascismo è stato il male assoluto. Quando tutti insieme accetteremo questo passaggio allora avremo fatto fino in fondo il nostro dovere». "Male assoluto", per inciso, è una categoria metafisica, non storica, e appiccicarla al fascismo è perlomeno monco (diverso ovviamente sarebbe dire «il totalitarismo è stato il male assoluto»).

 

Ma ecco le istruzioni per l'avversario moralmente inferiore, nel caso volesse essere ammesso davvero nell'agone democratico (che notoriamente non è quello delle urne, ma quello dei salotti di lorsignori): «Suggerisco a Giorgia Meloni che dovrebbe cambiare il simbolo del suo partito e togliere la fiamma». Un tema, quello del logo del partito, che appassiona molto anche Luca Bottura su La Stampa, il quale trascorre le notti angosciato a pensare alla Fiamma, «quella Fiamma». Pare infatti che le tesi di Giorgia Meloni non risultino credibili finché non citerà La Difesa della Razza, «di cui era colonna portante Giorgio Almirante». Come un tale Eugenio Scalfari era "colonna portante" di Roma Fascista, ci verrebbe da dire se bazzicassimo le loro altezze morali. Più modestamente, ci limitiamo ad osservare quel «io non voglio morire da fascista» scandito da Almirante mentre preparava la segreteria del giovane Fini e la prima, vera svolta irreversibile della destra italiana. 

SOPRAVVISSUTE
Sulla vexata quaestio della Fiamma, il giornale di Giannini va anche a scomodare Edith Bruck, artista ungherese sopravvissuta al lager e naturalizzata italiana, che giudica «assolutamente impossibile» il «dare credito a Giorgia Meloni» (come da domanda per niente orientata dell'intervistatore). Va peggio al Corriere, che pungola analogamente Lia Levi, scrittrice anch' essa superstite dell'Olocausto, la quale risponde: «Una dichiarazione ineccepibile». In ogni caso, parliamo di due titaniche testimoni della tragedia, che nulla c'entrano con l'oggetto di questo pezzo: la farsa degli antifascisti che vogliono, disperatamente e contro ogni principio di realtà, mantenere in vita il fascismo. Altrimenti, che si fa domani? 

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