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Potere e popolo, quando i comunisti occupavano tutto

Iuri Maria Prado
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Non so se ancora, ma negli anni Settanta del secolo scorso c'era al Parco Sempione di Milano un campetto da pallacanestro, alto su un terrapieno, un rettangolo di cemento rosa malridotto, maculato di buche e rattoppi, i tabelloni scrostati, i canestri ischeletriti dalla mancanza delle retine. Ci giocavano ragazzini che venivano un po' dappertutto, perlopiù figli di benestanti di zona ma anche molti poveri di periferia, vestiti diversi, con i capelli tagliati diversamente, con scarpe fighette gli uni e sgangherate gli altri, ma tutti soltanto desiderosi di giocare e confrontarsi su quel campo dove solo il gioco contava.

 


E un giorno, lontano, verso il Castello, stava addensandosi una manifestazione del Partito comunista italiano che sarebbe culminata in un comizio di Enrico Berlinguer. Il mondo giocoso dei ragazzini era tranquillamente separato da quello laggiù, che risuonava di slogan e ordinamenti del servizio d'ordine, ma dall'assembramento presero a staccarsi e a incamminarsi verso il campetto manipoli di manifestanti imbandierati di rosso, sino a occuparlo interponendosi tra le squadre dei ragazzini in partita. Uno di questi domandò: «Ma scusate, noi stiamo giocando, perché non ci fate giocare?». Gli rispose un energumeno con un grosso bastone che fingeva di giustificare una bandiera con falce e martello: «Abbiamo il difetto di essere in tanti, e quindi stiamo qui». Di rincalzo, un collega di bastone imbandierato: «Deve parlare Enrico: non si gioca».

 

 

Al che un altro tra quei ragazzini, ingenuo o incosciente nel non sottomettersi all'intimazione, prese la palla e palleggiando in corsa verso un canestro tentò un tiro. Incontrò invece il ceffone di uno dei bruti, che lo strattonò violentemente sino a sequestrargli il pallone. A quel punto uno, e solo uno tra quel gruppo di occupanti, disgustato da quello spettacolo, erubescente e con le vene frementi al collo, esplose: «Ma sono ragazzini! Ma siete impazziti?»; e furibondo, armeggiando nelle tasche e tirandone fuori un foglietto, aggiunse: «Stronzi! Questa è la tessera del Pci! Mi vergogno!», e la stracciò in faccia allo schiaffeggiatore. Rimediò una caterva di botte. Enzo Tortora diceva: «Ero liberale perché ho studiato, sono radicale perché ho capito». Io sono anticomunista perché volevo giocare. E il comunista che mi stava simpatico era quello che stracciò la tessera del partito. 

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