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Il centralismo ha bloccato ogni svolta

Francesco Carella
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L'Unità d'Italia era ancora di là da venire che la riflessione intorno al tema delle autonomie e del federalismo era già al centro del dibattito pubblico. Carlo Cattaneo scriveva nel 1848 che «ogni popolo può avere interessi da trattare in comune con altri popoli, ma vi sono interessi che può trattare egli solo, perché egli solo li sente e l'intende». In un articolo pubblicato il 29 settembre 1851 chiariva che «il federalismo è l'unica possibile via della libertà». Per colui che auspicava la formazione degli "Stati Uniti d'Italia" la scelta di federare le entità geo-politiche pre-unitarie «era il fine stesso- come ha scritto Norberto Bobbio - della rivoluzione italiana, il punto di partenza del nuovo Stato nazionale». Il pensatore lombardo influenzò non poco un esponente di spicco della Destra storica, Luigi Carlo Farini, il quale nel maggio 1860 in una nota inviata al Consiglio di Stato espone i criteri da utilizzare per il riordinamento amministrativo del Regno. Egli, dopo avere ricevuto il consenso dello stesso Cavour, propone di conciliare l'autorità centrale dello Stato con «le ragioni dei comuni, delle province e di altri centri più vasti». In quest' ultimo caso si riferiva alle regioni, che dovevano corrispondere ai «centri naturali della vita italiana». Sollecitazioni che il ministro Marco Minghetti, nei primi anni dell'Unità, tentò di tradurre in termini istituzionali mettendo a punto un progetto basato sul decentramento amministrativo. Molto si discusse intorno a quel disegno, ma alla fine il Parlamento lo accantonò per due preoccupazioni: la fragilità di uno Stato appena costituito e la grande spinta disgregatrice lanciata nel Mezzogiorno dal brigantaggio.

 

 

 

LE PAROLE DI MINGHETTI

Deluso per la bocciatura della sua proposta, Minghetti, parlando alla Camera dei Deputati, usò parole profetiche quando disse che «il potere accentrato avrebbe potuto condurre alla paralisi della vita democratica se non alla dittatura». Inutile ricordare che i due eventi - la dittatura e il blocco della democrazia appartengono a pieno titolo alla successiva storia politica italiana. La convinzione che la centralizzazione dei poteri potesse rappresentare un ostacolo ai processi di modernizzazione guadagnò l'attenzione dell'élite politica sia nell'Italia liberale che in quella repubblicana. In tal senso, non si può non citare la relazione che Don Luigi Sturzo tenne nel 1921 al congresso del Partito popolare a Venezia.

Egli respinge la tesi di coloro che sostengono che le regioni siano costruzioni artificiali individua in esse «un ente elettivo, autonomo, amministrativo e legislativo». Solo in tal modo, conclude il fondatore del Partito popolare si può "combattere l'invadenza della burocrazia statale". Argomenti sviluppati, una decina di anni dopo, dal movimento antifascista "Giustizia e Liberta". Infatti, in un articolo pubblicato nel 1932 sul primo numero della rivista Quaderni Carlo Rosselli indica «nell'autonomismo l'asse centrale intorno al quale si sarebbe dovuto costruire il nuovo Stato democratico, dopo la caduta del fascismo». Non furono diverse le tesi sostenute con forza in Assemblea Costituente sia dal giurista Piero Calamandrei che dal futuro capo dello Stato Luigi Einaudi. Anche questa volta, però, si preferì percorrere la via della centralizzazione, per il timore di mettere a rischio la stabilità della neonata Repubblica. Il resto è cronaca dei nostri anni in cui il pendolo oscilla fra tentativi malriusciti di mettere mano a cambiamenti istituzionali in senso autonomista - dalla mediocre riscrittura del Titolo V alla riforma di Matteo Renzi bocciata via referendum- e forti resistenze da parte delle burocrazie nazionali. Ora che il ministro per gli affari regionali e per le autonomie, Roberto Calderoli, ha presentato il Ddl sull'autonomia differenziata la speranza è che se ne possa discutere senza il velo di antichi pregiudizi. Una critica frequente è che si metterebbe a rischio l'unità dello Stato. Per costoro valgano le parole del meridionalista Guido Dorso quando scrive - in La rivoluzione meridionale: «Comprendo le preoccupazioni di chi teme processi disgregativi, ma non debbono nemmeno esistere più cervelli che concepiscano l'unità nazionale, sacra ed inviolabile per tutti gli italiani, come mezzo per continuare con lo sgoverno attuale».

 

 

 

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