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Pd, il sondaggio che inquieta Bonaccini e Schlein: nessuna via d'uscita?

Schlein e Bonaccini

Arnaldo Ferrari Nasi
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I commenti alla sconfitta elettorale da parte dei due candidati alla segreteria del Partito Democratico si sono concentrati su due possibili diverse soluzioni. Elly Schlein punta a recuperari gli astenuti: «Bisogna parlare a quella fascia di elettori che non va più neppure a votare perché non trova ascolto»; mentre Stefano Bonaccini si concentra sul tentativo di ricreare una grande coalizione e si chiede chi oggi«potrebbe pensare in un Comune o Regione di candidarsi senza un’alleanza larga». Non sono obiettivi originali; ma se almeno in parte fossero raggiunti, potrebbero portare qualche risultato. Dare contenuto a queste volontà, però, non è semplice.

 

 

URNE SANGUINOSE - Sulla questione dell’astensione è sufficiente ricordare la storia elettorale del Pd. Da quando esiste non ha mai vinto un’elezione nazionale. Nel 2008, ha perso contro il Pdl di Berlusconi e Fini; come partito, non come coalizione, ha perso quelle del 2013, superato di poco dalla novità 5 Stelle; ha perso nel 2018, più nettamente, ancora dai 5 Stelle; ha perso nel 2022 da Fratelli d’Italia. In tutti questi anni, il Pd non ha saputo creare un’offerta politica vincente. In una nostra rilevazione del 2020, ad esempio, solo solo l’1% dell’elettorato piddino si sentiva “molto rappresentato” dalla politica del proprio partito e ben il 38% affermava “spesso disprezzo i leader del mio partito”. Eppure il Pd ha governato quasi ininterrottamente per 12 dodici anni. Perciò, sia la dirigenza, ma anche la base, hanno vissuto in una sorta di bolla. La dirigenza si è convinta che quel che stava facendo era sufficiente, anzi, ben fatto, permettendosi di farsi scappare l’unico che li stava portando alla vittoria sul campo, Renzi (41% alle Europee del 2014, miglior risultato di sempre di un partito di sinistra). Conseguenza di questo appiattimento è stato il grande sforzo intellettuale che ha portato alla geniale campagna preelettorale del 2022, tutta improntata sul “pericolo fascista”.

Proprio questo è uno dei grandi motivi della forte astensione dell’elettorato di sinistra alle Regionali di Lombardia e Lazio. Quando si è insediato il nuovo governo di Centrodestra, tutto è andato al contrario di quanto sostenuto dalla narrazione Pd: una politica economica ponderata, in continuità con quella del governo precedente; ottimi rapporti e apprezzamenti in Europa; legge finanziaria equilibrata e con spunti rivolti ai ceti deboli. Insomma, il buon governo della Meloni ha sortito una specie di “effetto-Berlino Est” sull’elettore di sinistra. Quando cadde il Muro, i cittadini della DDR, ai quali era sempre stato raccontato che in Occidente c’erano non si sa quali mostri, videro invece palazzi in ordine e negozi pieni. All’Ovest non c’erano i cattivi, c’era gente che stava meglio. Ecco, col governo di centrodestra, gli elettori di sinistra hanno scoperto che esiste “qualcos’altro” e che se “quelli” vanno al governo cambia poco, anzi forse certe cose funzionano di più. Gli sono venute le gambe molli e sono rimasti a casa. E continueranno a rimanerci, finché non verrà dato loro qualcosa di serio.

 

 

Questo non può essere l’alleanza larga di cui parla Bonaccini. Nella sinistra italiana coesistono ormai due grandi partiti che hanno lo stesso peso, ma che in comune hanno molto poco. Chiedendo agli elettori Pd cosa ne pensano di una nuova alleanza coni 5 Stelle, le risposte positive sarebbero solo una su cinque (20%). La stessa domanda, eguale e contraria, fatta agli elettori 5 Stelle, porterebbe ad un risultato positivo del 25%, uno su quattro. Molto poco. Il motivo è che solo il 9%, dato rilevato in entrambi gli elettorati, ritiene di avere valori comuni. Possiamo pure considerare gli “abbastanza” e raggiungere la quota del 33% (sia Pd che M5s), ovvero uno su tre. Rimane un dato scarso, non valido per garantire né quell’offerta politica accattivante che occorre, né per garantire, in caso di vittoria, un governo solido che duri tutta una legislatura. 

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