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Fabio Rampelli: "La difesa dell'italiano non ha colore"

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Brunella Bolloli
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Onorevole Fabio Rampelli, vicepresidente della Camera, è scoppiata una bagarre attorno alla sua proposta di legge per la tutela e la promozione della lingua italiana. Ah no, scusi, bagarre non si può dire: è un termine straniero. Rettifico: c’è “subbuglio” attorno alla sua proposta di legge per la tutela e la promozione della lingua italiana. È così?
«Mi pare che anche lei, come altri, non abbia compreso i contenuti della mia proposta di legge».

In verità si è capito che si citano multe da 5mila a 100mila euro per chi non privilegia la lingua italiana “nella fruizione di beni e servizi, nella comunicazione e nella pubblica amministrazione”. Ammetterà che sono sanzioni salate.
«Sono pronto a discutere della mia proposta e a fare degli aggiustamenti, se necessario, ma la rivendico con forza. Innanzitutto perché c’è un diritto alla comprensione che equivale al rispetto della democrazia. Se non ti fai capire o non vuoi farti capire significa che sei antidemocratico».

Chi usa termini stranieri è antidemocratico?
«Io sto parlando di pubblica amministrazione, di grandi aziende, della televisione di Stato: cioè di enti che devono essere al servizio dei cittadini italiani. Se parlano in inglese come possono aiutare chi non ha studiato, gli anziani che non conoscono le lingue o chi non ha avuto la possibilità di studiare? Se si rivolgono solo a pochi “eletti”, allora è aristocrazia, non è più democrazia».

Ma non crede che nel 2023 alcuni termini anglosassoni siano ormai entrati nel linguaggio comune?
«Io mi batto per la valorizzazione della lingua italiana, che fra l’altro è una lingua bellissima e dovrebbe essere apprezzata universalmente. In questa battaglia mi illudevo che potesse esserci il sostegno di tutti, perché la lingua italiana non è né di destra né di sinistra».

E invece giù critiche.
«Soprattutto dal cosiddetto “circo mediatico”, che ha tirato fuori adesso la mia proposta nel tentativo di attaccare il governo. Il problema è che parlano senza leggere. Ci sono tanti somari in giro. Io poi mi ispiro alla legge Toubon».

Cosa prevede?
«La legge Toubon, dal nome dall’ex ministro della Cultura francese, rende obbligatorio l’uso della lingua francese nelle pubblicazioni governative, nelle pubblicità, nei luoghi di lavoro, nei contratti e nelle contrattazioni commerciali, nelle scuole finanziate dallo Stato e in altre situazioni. Lo fa la Francia e nessuno dice niente, lo propone l’Italia e viene giù il mondo».

Forse per via delle multe elevate? Anche l’Accademia della Crusca ha detto che sanzionare chi parla straniero è “ridicolo”.
«Ripeto, sono pronto ad aggiustamenti e migliorie, ma non vedo perché l’Italia debba essere uno dei pochi Paesi a non valorizzare il proprio patrimonio linguistico e a preferire l’utilizzo di inglesismi perfino quando la traduzione in italiano è possibile. Con l’Accademia della Crusca c’è un’interlocuzione costante per difendere l’italiano dagli eccessi di esterofilia e nessuno vuole vietare le parole straniere, non c’è alcun obbligo per i singoli, ma non vedo perché Eni, Enel, Rai debbano privilegiare forestierismi».

Mesi fa, alla Camera, nell’invitare i colleghi deputati a sanificare le mani, lei volle precisare che per dispenser si intende dispensatore. Cos’è che proprio non le va giù dei “forestierismi”?
«Il discorso è un altro. È che dovrebbe essere interesse di tutti introdurre la tutela dell’italiano anche riconoscendola come lingua ufficiale della Repubblica».

Su questo, un’altra sua proposta di legge mira a modificare gli articoli 6 e 12 della Costituzione e tutelare il nostro inno nazionale, le cui radici, scrive, partono dal Risorgimento...
«Non ci vedo niente di strano e anzi mi stupisco delle polemiche. Paradossalmente la nostra Costituzione tutela le minoranze e non l’italiano. Vi pare normale? A me no. C’è un vuoto costituzionale da colmare».

Ma come la mettiamo con il vostro ministero del Made in Italy? Bisogna ribattezzarlo “fatto in Italia”?
«Allora non mi sono spiegato! È ovvio che se devi promuovere i prodotti italiani all’estero devi parlare in inglese, che è la lingua riconosciuta a livello globale. Ma se sei pubblica amministrazione e devi rivolgerti ai cittadini italiani perché devi dire jobs act o spending review? Non si può dire “contenimento della spesa”?».

Sia sincero, quando Giorgia Meloni si è definita underdog nel suo discorso d’insediamento le sono venuti i sudori freddi?
«Ancora? Ma allora non è chiaro: ognuno può dire ciò che vuole, non c’è alcuna privazione della libertà di parola. Né alcun veto. La mia proposta è rivolta a enti, grandi aziende, multinazionali che stipulano contratti incomprensibili in inglese e pertanto passibili di multa. Su questo la maggioranza è compatta e chi ci attacca ha la coda di paglia». 

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