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La Russa "provocatore" ma sulla Costituzione e antifascismo ha ragione

Pietro Senaldi
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Ci sono due Ignazio La Russa. Il primo è il politico di serie A, capace di farsi eleggere in Parlamento per nove legislature consecutive, di intuire con anni d’anticipo che il berlusconismo si sarebbe avviato sul viale del tramonto e di ripartire da zero a più di sessant’anni, fondando un nuovo partito con una giovane di talento, Giorgia Meloni. È stato capace anche di fare un passo indietro e di assegnarle il bastone del comando. Sempre questo La Russa, ha avuto l’abilità di farsi votare alla presidenza del Senato, pur conservando pubblicamente un busto di Mussolini in ufficio, e di diventare il primo post-fascista a ricoprire la seconda carica della Repubblica; capolavoro, grazie ai voti anche della sinistra.

 

 

 

Esiste poi un secondo Ignazio La Russa, estremamente luciferino, come lo raffigurava ai tempi d’oro Striscia la Notizia, che con il suo ghigno sfrontato gioca a fare il provocatore e si diverte a far impazzire la sinistra, che con scadenza settimanale ne chiede le dimissioni. È l’uomo che in un’intervista a Terraverso, il podcast di Liberoquotidiano.it, non si è limitato ad affermare che l’attentato di via Rasella che diede origine alla rappresaglia nazista delle Fosse Ardeatine, non è stata la pagina più nobile della nostra Resistenza - fatto incontestabile -, ma ha sconfinato sul surreale definendo «una banda di mezzi pensionati» i soldati riservisti tedeschi uccisi dalla bomba partigiana. Ed è anche colui che il 25 aprile, dopo essersi recato con il presidente della Repubblica e il presidente del Consiglio all’Altare della Patria, volerà a Praga a rendere omaggio a Jan Palach, vittima della furia comunista che buona parte dei partigiani nostrani avrebbero voluto importare in Italia.

 

 

 

LA SFIDA

Un gesto di sfida che La Russa descrive come atto «a mettere d’accordo tutti», ben sapendo che invece l’opposizione lo attaccherà anche per questo, ricordandogli che la Primavera di Praga poco c’entra con quella italiana del 1945. È sempre questo secondo La Russa che ieri ha rilasciato un’intervista a Repubblica per dire che «nella Costituzione non c’è alcun riferimento all’antifascismo, perché i moderati non volevano fare questo regalo al Pci e all’Urss». Salvo poi aggiungere, consapevole, che «qualunque cosa dica o faccia, viene sempre strumentalizzata e se Fdi togliesse la Fiamma dal simbolo, poi gli verrebbe rinfacciato il riferimento alla Nazione, e poi se ne troverebbero altre». Insomma, il presidente lo sa che come apre bocca sui temi passati dà scandalo, e infatti anche ieri a decine gli hanno chiesto di lasciare la presidenza di Palazzo Madama, ma se ne strafotte e tira dritto; tanto sa che per la sinistra lui ha torto anche quando ha ragione.

 

 

 

Già perché l’affermazione per la quale mezzo Pd ieri ne chiedeva le dimissioni, ovverosia che la Costituzione non cita l’antifascismo, è sacrosanta. Il «divieto di riorganizzazione del disciolto partito fascista» infatti non è contenuto in nessuno dei 139 articoli della Carta ma solo nelle disposizioni transitorie e finali, che alla riga successiva prevedono perfino l’eleggibilità dei gerarchi del regime dopo appena un quinquennio dall’entrata in vigore della Costituzione. Non può essere una scelta casuale. Se davvero i padri costituenti avessero voluto dare alla nostra Repubblica un’impronta dichiaratamente antifascista, lo avrebbero scritto chiaramente, come hanno fatto all’articolo 1, fondando l’Italia sulla democrazia e sul lavoro. Sono cambiati i tempi, oggi siamo fondati sul reddito di cittadinanza più che sul lavoro e sull’antifascismo più che sulla democrazia, ma non per questo La Russa ha torto.

 

 

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