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Matterella sculaccia Saviano, Lerner e la Schlein: la frase pesantissima

Fausto Carioti
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Anche nelle scarpe di Sergio Mattarella entrano sassolini. Sassi grossi, talvolta. Spesso – quasi sempre – se li toglie in privato, o nelle conversazioni riservate con gli altri vertici delle istituzioni. Stavolta no, ha ritenuto necessario farlo in pubblico, visto che la questione riguarda l’articolo 21 della Costituzione, quello per cui «tutti hanno diritto di manifestare liberamente il proprio pensiero». A spingerlo non è stata solo la censura che al Salone del Libro di Torino è stata imposta al ministro Eugenia Roccella, ma anche quello che si è aggiunto dopo. Le teorie liberticide di chi si è arrampicato sugli specchi della Costituzione per sostenere che impedire ad un avversario politico di parlare non è un sopruso, ma un sano esercizio di democrazia.

Così nella cerimonia di Barbiana per il centenario della nascita di don Lorenzo Milani, parlando di educazione, uguaglianza e importanza delle parole, il capo dello Stato ha voluto spiegare a chi non l’ha capito dove finisce il diritto di critica ed inizia l’angheria. Gli sono bastate poche parole, all’interno di un discorso molto più ampio dedicato al sacerdote fiorentino. La cui scuola, ha ricordato, «cercava di instaurare l’abitudine a osservare le cose del mondo con spirito critico. Senza sottrarsi mai al confronto, senza pretendere di mettere qualcuno a tacere, tanto meno – vorrei aggiungere - un libro o la sua presentazione». L’“aggiunta” non è finita lì per caso. Il riferimento a quanto avvenuto a Torino, e alle tesi sostenute per giustificare l’episodio, è stato meditato. La reprimenda è indirizzata non a tutto lo schieramento progressista, dove le eccezioni ci sono state, ma a quella parte – ampia – della sinistra politica ed intellettuale che ha spinto per far passare il messaggio secondo cui è stato giusto impedire al ministro di parlare. Non serve fare i nomi. Innanzitutto perché un capo dello Stato non deve entrare nella polemica diretta.

 

Poi perché il protagonista della giornata era don Milani, educatore che, ha detto Mattarella, «avrebbe sorriso» dinanzi a coloro che lo hanno rappresentato «come antimoderno, se non medievale» o, all’opposto, «come antesignano di successive contestazioni dirette allo smantellamento di un modello scolastico ritenuto autoritario» (vedi alla voce Sessantotto). E perché quei nomi sono tanti e già noti a tutti, visto che hanno difeso in pubblico le ragioni del bavaglio.
QUANTO IMBARAZZO
Sono gli stessi che ieri, raggelati, si sono guardati bene dal commentare il suo discorso. C’è Elly Schlein, che aveva provato a ribaltare la frittata, accusando Roccella e il governo di avere «un problema surreale con ogni forma di dissenso» (dissenso è una cosa, togliere il diritto di parola è un’altra: siamo all’Abc della democrazia). E sulla scia della segretaria si è mosso lo stato maggiore del Pd, incluso Matteo Orfini, per il quale certi metodi di lotta «sono assolutamente fisiologici in democrazia» e dunque il ministro «ha scelto il vittimismo». Stessa cosa sul fronte grillino, dove per Chiara Appendino lo scandalo è stato il comportamento di Roccella e Augusta Montaruli, «prepotenti ed arroganti».

C’è Roberto Saviano, secondo cui una contestazione del genere «è quanto di più sano possa avvenire in una democrazia». Idee simili a quelle di Gad Lerner, secondo il quale la protesta che ha impedito al ministro di parlare è stata legittima, visto che con lei «non c’erano mai state occasioni di dialogo o confronto». Ci sono intellettuali (diciamo) tipo la filosofa Giorgia Serughetti, che sul Domani, il quotidiano di Carlo De Benedetti, ha scritto che quella contestazione era «sacrosanta» e le ragioni «sono dalla parte di chi grida la sua rabbia». O lo scrittore Domenico Starnone: «Se chi ha interrotto Roccella è fascista, allora lo è qualsiasi insurrezione», ha detto alla vicedirettrice della Stampa, Annalisa Cuzzocrea. Ed è un peccato, perché la commemorazione di un gigante come don Milani non meritava di finire affogata in questa vicenda. Il primo a rammaricarsene è il capo dello Stato, che all’autore di Lettera a una professoressa ha dedicato una riflessione bella e priva di retorica, ricordando che il prete, oltre al solito «I care», amava dire «Finché c’è fatica, c’è speranza»: l’etica del lavoro individuale, senza il quale una collettività non cresce. Mattarella sapeva che c’era il rischio di far passare tutto questo in secondo piano, e se ha deciso di mettere nel suo discorso quel passaggio lì è perché si è sentito costretto a farlo da azioni e parole che giudica preoccupanti. 

 

 

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