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Antonio Polito, "Meloni credibile in Italia e all'estero". Schlein verso il fine-corsa

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«Meloni ha abbandonato il sovranismo, la sua bussola è l’interesse nazionale», parla così a Libero Antonio Polito in una conversazione a tutto campo sulla destra e non solo. «Meloni è the only show in town, l’unico esperimento politico in corso. Domina la scena a destra e sinistra - prosegue l’editorialista del Corriere - Come ha notato Luca Ricolfi, da dieci mesi il premier spiazza la sinistra, toglie agli avversari ogni margine di azione perché occupa la scena in modo totalizzante. Con la tassa sugli extraprofitti delle banche, con il taglio del cuneo fiscale, con la proposta sul salario minimo il premier lascia alla sinistra ben pochi argomenti. Un rischio però c’è: se la destra eccedesse nell’uso della spesa pubblica a scopo puramente redistributivo, l’economia s’incepperebbe. Sarebbe un errore fatale».

 

 

 

Polito, partiamo dal principio: si può dire che Meloni, dismesso il sovranismo, incarni piuttosto un conservatorismo di stampo nazionalista? 
«A mio giudizio, è un processo ormai compiuto in Europa dove il premier ha scommesso tutto sulla credibilità, e ha fatto bene. Sovranismo e nazionalismo non sono sinonimi, e oggi per Meloni viene prima il secondo. Chi dice che sarebbe diventata una “moderata” banalizza un passaggio ben più significativo. A guidare l’azione del premier non c’è una rivendicazione sovranista mala lucida consapevolezza che per contare l’Italia deve stare in Europa e in Occidente, deve sedere ai tavoli che contano, deve essere disposta a cedere sovranità, ove necessario, per realizzare l’interesse della nazione». 
La parola “nazionalismo” sconta un’accezione storica negativa.
«I nazionalismi non sono affatto uguali. Nella storia l’idea di nazione è stata usata sia per liberare popoli oppressi, come nella costruzione dell’Italia unita, sia per opprimere altri popoli, come è avvenuto con la Germania nazista. In Ucraina esiste un nazionalismo ucraino che si batte contro l’invasore russo. Il pensiero conservatore può nutrirsi di idee nazionaliste senza essere per questo antidemocratico».
Sul caso Vannacci il premier non ha proferito verbo. Ha fatto bene?
«Ha fatto benissimo, Meloni evita da sempre la sovraesposizione, anzi periodicamente sparisce un po’ dai radar perché sa che l’eccesso di popolarità si ritorce contro. Sul caso Vannacci, ha sapientemente evitato commenti perché lo sforzo del premier, riuscito alle ultime elezioni politiche, è quello di parlare alla maggioranza del Paese. Non a caso è stato Guido Crosetto a respingere per primo queste critiche: il ministro della Difesa incarna lo spirito della destra che vuole parlare alla maggioranza. Meloni però viene da una cultura politica molto minoritaria, che le faceva raccogliere intorno al 4 percento, adesso veleggia intorno al 30. Nel mondo della destra italiana ovviamente esistono posizioni minoritarie, a lungo compresse e costrette al silenzio, che adesso approfittano del successo politico di Meloni per dare sfogo alle proprie frustrazioni. È la sindrome identitaria dell’escluso, per anni tenuto ai margini dal mainstream e adesso bramoso di rivincita».
Sono quelli che si agitano a destra della destra? Con quali chance?
«Sono posizioni minoritarie, destinate a rimanere tali. Certamente mettono in difficoltà Meloni, non la aiutano, anzi la costringono sulla difensiva. Distraggono l’attenzione dalla questione principale: il governo del Paese. Mala sfida di Meloni è parlare alla maggioranza del Paese, all’elettorato non ideologizzato che chiede buon governo, ordine, giustizia. Gli italiani l’hanno votata per cambiare l’Italia, non per cambiare la storia. La promozione della sorella Arianna all’interno di Fdi è una scelta non solo comprensibile ma necessaria: la leader si barrica per aprirsi. Le serve tenere sotto controllo il partito, anche dal punto di vista organizzativo, per evitare che le tensioni identitarie o rivendicazioniste prendano troppo spazio».

 

 


 

 

Lei diceva che il governo dovrebbe evitare l’eccessivo ricorso alla spesa pubblica. In autunno si vara la prima vera manovra del governo Meloni, e la coperta è corta. Consigli? 
«Fino ad oggi, il principale merito del premier è aver consentito che la crescita proseguisse. In economia i governi fanno bene quando non fanno. Meloni ha deciso di giocare la sfida dell’affidabilità, e a giudicare dai risultati economici e dalla postura dell’Italia nei vertici internazionali si può dire che questa sfida la sta vincendo. Non ricordo una luna di miele con l’elettorato così prolungata dopo quasi un annodi governo. Meloni è un premier consapevole di guidare un’economia industriale del G7, sa bene che l’Italia fuori dall’Ue e dalla Nato avrebbe solo da perdere, sa che è fondamentale rassicurare gli investitori esteri e i mercati finanziari da cui dipende la tenuta del nostro debito pubblico».
Qualcosa avrà da consigliarle... 
«Ho un solo suggerimento: Meloni limiti l’intervento statale dove c’è già, cioè nell’economia, e rafforzi invece la presenza dello stato dove ce n’è meno, cioè nel campo della sicurezza e dei migranti. La cronaca quotidiana abbonda di episodi di violenza, per le strade, nelle stazioni, spesso ad opera di persone che si trovano illegalmente nel nostro paese. Non è accettabile».
Dica la verità: il prelievo sugli extramargini delle banche non le è piaciuto. 
«Quella misura è grave non per i due o tre miliardi che ricavi dalle banche ma per la credibilità che perdi. Con questo provvedimento si manda al mondo un messaggio: il governo italiano può decidere, da un momento all’altro, di tassare questa o quella categoria. Non è un bel messaggio».
Lei ha capito perché una leader anagraficamente giovane sia inseguita da un passato - il fascismo, il terrorismo nero- che non le appartiene? 
«È una contraddizione, in effetti. Meloni, giustamente, non passa il tempo a discutere di questo, anzi spesso preferisce il silenzio. Il premier ha tenuto discorsi dignitosi, privi di qualunque ambiguità, sia nel giorno dell’insediamento che in occasione del 25 aprile. Né appare irrilevante ciò che ha detto il presidente del Senato Ignazio La Russa sulla strage di Bologna riconoscendo la matrice neofascista dell’attentato. Meloni ha espresso totale adesione ai valori della Costituzione repubblicana, pur non cedendo alla assurda pretesa di dichiararsi antifascista, il che sarebbe ridicolo per una persona che proviene da quella storia».

 

 

 


 

 

Sul Corriere lei ha scritto che l’apprendistato politico di Meloni la rende più forte, non più debole. 
«È così, Meloni è un politico della prima Repubblica, e questo è un punto di forza perché la formazione nei vecchi partiti di massa le ha conferito solidità e consapevolezza. Ha radici profonde che potrebbero darle anche durata. Ha cominciato a far politica quando c’erano i partiti di massa, con una ideologia e una organizzazione vera. Lei pensi a Renzi e Salvini: sono politici dell’epoca mediatica e delle dirette Instagram, anche un po’ sballottati da questa leggerezza. Lei studia, impara le lingue, sta poco sui social».
Non abbiamo parlato dell’opposizione: può ostacolare i piani del premier?
«Questa opposizione è debolissima, il Pd è alla disperata ricerca di una via d’uscita dalla crisi storica della socialdemocrazia europea. La cerca attraverso una riscrittura della propria identità come difensore delle minoranze, di tutte le minoranze. In questo modo un partito che dalla sua fondazione non ha mai vinto le elezioni si illude di colmare un vuoto. A mio giudizio, è una via destinata al fallimento. Elly Schlein doveva essere la Sanna Marin italiana ma è evidente che non rappresenta un pericolo per Meloni, al contrario la rafforza. Meloni ha l’obiettivo di guidare la destra anche alle prossime elezioni politiche per ottenere un secondo mandato: sarebbe la prima volta in assoluto, dal 1994, che un premier viene riconfermato a Palazzo Chigi per due mandati successivi».
E Schlein? Guiderà lei il Pd alle prossime politiche?
«Secondo me no».

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